Il passo in avanti dell’ Accordo di Parigi
"In confronto a ciò che avrebbe potuto essere, è un miracolo. In confronto a ciò che dovrebbe essere, è un disastro" George Monbiot
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L’accordo di Parigi, approvato nella XXI sessione della Conferenza delle Parti della Convenzione ONU sul clima che si è svolta nella capitale francese, rappresenta un importate passo in avanti nel negoziato internazionale sul clima. Dopo 15 giorni di trattative serrate, ben coordinate dalla Presidenza francese, il consenso di 190 paesi è arrivato per un testo equilibrato, di 11 pagine e 29 articoli.
Uno dei punti fondamentali dell’Accordo di Parigi è una nuova architettura degli impegni per contrastare il surriscaldamento globale, un regime definito “bottom-up”, perché basato su “offerte e revisioni” volontarie. A lungo nel passato si è cercato di costruire un nuovo accordo globale che prevedesse impegni vincolanti di tutti gli Stati, sulla base di una qualche declinazione condivisa di un principio di equità; questo tentativo si è concluso con la COP15 di Copenhagen, nel dicembre del 2009. Alla base dell’accordo di Parigi ci sono invece gli Indc (“Intended Nationally Determined Contribution”, in italiano “contributi promessi stabiliti a livello nazionale”): sono impegni volontari trasmessi dagli Stati, riguardanti principalmente impegni a ridurre le emissioni (o a contenerne l’aumento). Le dichiarazioni di Indc arrivate prima e durante la COP21 sono state 160, da parte di 187 paesi (l’Unione europea ha inviato un unico Indc per i 28 Stati membri), che rappresentano circa il 99 % della popolazione e delle emissioni mondiali. Tranne pochissime eccezioni, tutti i Paesi emettitori di gas serra hanno dichiarato impegni a limitare le loro emissioni.
C’è stata quindi una grandissima partecipazione a questo nuovo approccio e le riduzioni delle emissioni previste da questi Indc sono molto più elevate di quanto prevedeva il Protocollo di Kyoto. Nonostante questo, sono impegni ancora insufficienti per raggiungere l’obiettivo scritto nell’accordo di Parigi quello di “mantenere l’incremento della temperatura media mondiale ben sotto i 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali e fare sforzi per limitare l’incremento della temperatura a 1,5 °C, riconoscendo che ciò ridurrebbe significativamente i rischi e gli impatti del cambiamento climatico”. In altre parole, l’asticella degli sforzi degli Stati è stata parecchio alzata, ma il ritardo accumulato fa che gli impegni oggi decisi non possano essere considerati sufficienti.
Molto si è discusso su quanto questi impegni volontari hanno o no un carattere vincolante: pur se vero che non sono previste – per ora – sanzioni per chi non dovesse rispettare gli impegni sottoscritti con gli Indc, va detto che nell’Accordo di Parigi ci sono alcune parti che individuano impegni legalmente vincolanti, ad esempio quelle procedurali, o sulle verifiche e i controlli, il coordinamento sulle scadenze e la trasparenza delle comunicazioni dei Paesi.
L’obiettivo definito per la mitigazione è molto ambizioso, ed è arrivato dopo un braccio di ferro prolungato, in cui hanno giocato un ruolo chiave i Paesi più poveri e quelli delle piccole isole del Pacifico, i più colpiti dagli impatti del cambiamento climatico. Se preso seriamente, l’obiettivo di mantenere le temperature “ben al di sotto dei 2°C”, significherebbe un’accelerazione impetuosa delle politiche per ridurre le emissioni.
Un altro punto centrale dell’Accordo di Parigi sono i momenti di ‘verifica e rilancio’, previsti ogni cinque anni: in ogni ciclo si farà il punto del risultati conseguiti e gli Indc dovranno essere più ambiziosi dei precedenti. L’Accordo si configura quindi come strumento flessibile, che si dovrà adattare all’evoluzione delle emissioni globali: ogni Paese può modificare in ogni momento i suoi impegni, tutti sono comunque chiamati a farlo ogni cinque anni.
L’accordo è stato salutato come ‘un successo’ da molti commentatori, nonché dai rappresentanti di quasi tutti i governi. Anche le voci critiche hanno riconosciuto che a Parigi “la ruota dell’azione climatica ha girato”, ossia c’è stato un avanzamento. La sintesi di George Monbiot, uno dei più autorevoli giornalisti che seguono la questione climatica, è efficace: “In confronto a ciò che avrebbe potuto essere, è un miracolo. In confronto a ciò che dovrebbe essere, è un disastro”.
Hanno un fondamento dunque le critiche che vedono l’accordo troppo poco ambizioso; ma la mancanza di ambizione deriva dall’enorme ritardo accumulato nel decennio passato, il merito dell’Accordo di Parigi è semmai di aver costruito un sistema che permetterà in futuro un aumento dell’ambizione con il rafforzamento degli impegni.
Un lungo applauso, liberatorio, ha salutato l’approvazione dell’Accordo la sera del 12 dicembre 2015, ed è legittima la soddisfazione per un accordo migliore di quanto ci si sarebbe potuti aspettare. Ma l’entusiasmo va temperato con la consapevolezza della lentezza e della fatica fatta registrare fino ad oggi dal negoziato sul clima, e della grande sfida che chi ha sottoscritto l’Accordo di Parigi, prendendolo seriamente, ha deciso di accettare. Come ha commentato il commissario europeo all’azione sull’Energia e il Clima, Arias Cañete, “oggi possiamo festeggiare, da domani dobbiamo agire”.
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