ELEMENTI – Zolfo, via del Sesto Gruppo, 16

Pubblicato il 26 gennaio 2011

Vi ricordate quando Ulisse deve purificare la stanza in cui sono stati giustiziati gli arroganti pretendenti di sua moglie? Ordina alla fedele Euriclèa di bruciare dello zolfo (theio); mille anni prima di Cristo erano quindi note le proprietà disinfettanti dell’anidride solforosa; lo zolfo necessario era estratto dalle zone vulcaniche; i Romani addirittura lo estraevano industrialmente dalle miniere siciliane utilizzando come mano d’opera gli schiavi o i criminali condannati ai gravosi lavori, “ad metalla”, per cui molti morivano asfissiati dai gas solforosi che si liberavano nei giacimenti sotterranei. I giacimenti siciliani sono stati la principale fonte di zolfo nell’antichità e nel Medioevo fino al Novecento.

Lo zolfo si presenta in masse di colore giallo che fondono a circa 115 °C; ha peso atomico 32 e si trova in natura in tre diversi stati di ossidazione corrispondenti a SH2, SO2, SO3 e ai relativi derivati solfuri, solfiti e solfati. Dopo l’arrivo in Europa della formula cinese della polvere da sparo, in cui lo zolfo entra come ingrediente insieme al carbone e al salnitro, lo zolfo divenne un materiale strategico, ma la grande era moderna dello zolfo comincia alla fine del 1700 con la scoperta che una miscela di zolfo, acido nitrico e acqua si trasforma nel potente acido solforico. Con l’aumento della produzione dell’acido solforico, da pochi chili per volta secondo le formule degli alchimisti, a quintali e tonnellate per volta, è aumentata la richiesta dello zolfo e solo in Sicilia c’erano dei rilevanti giacimenti sotterranei di zolfo. Il mercato “tirava”; i clienti francesi e inglesi erano disposti a pagare bene lo zolfo e i grandi baroni del latifondo agrario si trasformarono in imprenditori minerari.

In Sicilia lo zolfo si trova in giacimenti frammisto a depositi di solfato di calcio e di calcare e veniva recuperato con un rudimentale sistema. Venivano fatti dei mucchi di minerale, le “calcarelle”, coperti di pietre e muniti di un rudimentale camino; si dava fuoco allo zolfo che reagiva con l’ossigeno dell’aria trasformandosi in anidride solforosa: il calore di combustione che si liberava faceva fondere una parte dello zolfo che colava allo stato liquido alla base delle calcarelle e veniva recuperato. Solo la metà dello zolfo presente nel minerale greggio veniva recuperato e venduto; l’altra metà finiva nell’aria sotto forma di un gas inquinante che avvelenava i polmoni dei lavoratori, degli abitanti dei paesi vicini e distruggeva le colture.

Nella seconda metà dell’Ottocento delle miniere siciliane cominciarono ad occuparsi degli imprenditori un po’ più attenti: non certo ai problemi di inquinamento, ma allo spreco di materia prima. Per ottenere più zolfo dal minerale furono inventati dei processi – prima i “calcaroni” poi, alla fine del 1800, i forni Gill – nei quali veniva recuperata una parte del calore di combustione dello zolfo e veniva ridotta la fuga dell’anidride solforosa nell’aria. Queste innovazioni tecniche arrivarono però tardi: alla fine dell’Ottocento furono scoperti in America dei giacimenti di zolfo a poche decine di metri di profondità nel sottosuolo della Louisiana.

Un ingegnere, Herman Frasch (1852-1914), inventò un sistema per sollevare in superficie lo zolfo allo stato fuso, molto puro, e da allora cominciò il declino dell’industria mineraria siciliana. Ma anche l’estrazione dello zolfo nativo col metodo Frasch è finita; oggi lo zolfo si ottiene quasi esclusivamente per ossidazione dell’idrogeno solforato presente nel metano, dai composti solforati che si formano nella raffinazione del petrolio e dalla anidride solforosa che si forma durante l’arrostimento delle piriti di ferro e di altri solfuri metallici con l’astuto sistema inventato nel 1883 dal chimico Alexandre Chance (1844-1917): l’anidride solforosa è ridotta a idrogeno solforato che viene fatto reagire con altra anidride solforosa con formazione di zolfo puro.

Giorgio Nebbia



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