Scanzano chi?

Pubblicato il 13 novembre 2013

13_11_nebbiaScanzano chi? Sono passati dieci anni da quando questo quasi sconosciuto, e poi presto dimenticato, paesino della Basilicata è stato al centro di una battaglia ecologica che allora ebbe un certo rilievo. La storia è presto raccontata. In Italia da decenni esistono alcune decine di migliaia di tonnellate di sostanze radioattive, ad alta e media radioattività, che sono il residuo di una sventurata stagione nucleare, consistita nella costruzione di alcuni reattori, quattro più grossi e altri minori, chiusi dopo breve tempo uno dopo l’altro, e in avventate attività di trattamento di barre nucleari importate dagli Stati Uniti e che ci sono rimaste in casa col loro carico di plutonio, torio e uranio. Tali sostanze radioattive, comunemente chiamate ‘scorie’, continuano ad emettere radioattività e calore per secoli e millenni e devono (dovrebbero) essere sistemate accuratamente isolate dalle acque e dagli esseri viventi.

Non si sa dove metterle in Italia, ma neanche in paesi più avanzati di noi, per evitare la contaminazione radioattiva di questa e delle future generazioni. Nell’autunno 2003, il secondo governo Berlusconi, essendo ministro per le attività produttive il deputato Antonio Marzano e ministro dell’ambiente il deputato Altero Matteoli, decise di creare un deposito di scorie radioattive in un giacimento di sale che si trova nel sottosuolo della Basilicata, residuo dell’evaporazione di mari poi scomparsi. Teoricamente un giacimento di sale potrebbe anche essere adatto per depositarvi le scorie nucleari perché se il sale, molto solubile in acqua, è rimasto intatto fino adesso per secoli, si potrebbe pensare che neanche in futuro sarà attraversato dalle acque che sono il principale pericolo per la sicurezza delle scorie. L’acqua, infatti, potrebbe corrodere il cemento e poi l’acciaio dei fusti contenenti le scorie fino a liberare nell’ambiente una parte degli elementi che continueranno ad emettere radioattività per altri duemila secoli nel futuro.

Non appena emanato il decreto, gli ignari abitanti di Scanzano e dintorni si sono chiesti che cosa significasse il progetto governativo e sono andati a informarsi in giro per sapere che cosa fanno gli altri paesi per seppellire le loro scorie nucleari; hanno così scoperto che né i tedeschi né gli americani, che hanno ben più grandi giacimenti sotterranei di sale, li hanno considerati adatti per le loro scorie radioattive. Figurarsi se era adatto quel piccolo giacimento a 800 metri di profondità a poca distanza dal Mar Jonio. Bisognava sentire i piccoli agricoltori parlare con competenza di curie e di rem, le unità di radioattività. E poi si sono chiesti quali indagini fossero state fatte dal governo, quale effetto le operazioni di escavazione e di trasporto delle scorie avrebbero potuto avere sull’intera economia della zona. Fatti tutti i conti hanno fatto sapere al governo che consideravano la proposta inaccettabile.

Come al solito le reazioni del potere furono arroganti: ecco i contadinelli della Lucania che non vogliono, per ignoranza, miopia e egoismo, a casa loro un’opera che sarebbe strategica per l’economia nazionale, che avrebbe assicurato posti di lavoro. E altrettanto energica è stata la risposta delle popolazioni al punto da ingaggiare col governo quella che fu allora chiamata la “battaglia di Scanzano”, con pubblicazioni e manifestazioni. Ne risultò che il sito prescelto non era adatto per motivi geologici, geografici, economici, ambientali e il decreto governativo fu frettolosamente ritirato con una legge che stabiliva che un deposito nazionale delle scorie nucleari sarebbe stato deciso entro il 2005. Lo stiamo ancora aspettando.

La battaglia ambientale e civile era stata vinta, una pagina della storia ambientale raccontata nel libro, bello e appassionato, di Rossella Montemurro, “I giorni di Scanzano”, Ediesse, 2004, e nel libro di Virginio Bettini, “Scorie”, Utet, 2006. Dalla battaglia di Scanzano viene un modesto suggerimento al potere politico e industriale: non è detto che la contestazione ambientale abbia motivazioni egoistiche, municipali, grette; spesso è giustificata da conoscenze geografiche e geologiche che i contestatori, vivendo sul posto, possiedono meglio dei funzionari dei ministeri o delle imprese. La storia dell’ambiente mostra che molti contestati progetti, dovuti a decisioni frettolose o ispirati da miopi interessi economici, si sono rivelati inutili o dannosi e hanno dovuto essere abbandonati.

Coloro che prendono decisioni che coinvolgono un territorio e i suoi abitanti, farebbero bene ad esaminare con attenzione le motivazioni di coloro che si oppongono perché essi potrebbero anche avere ragione. Del resto le valutazioni del cosiddetto ‘impatto ambientale’ di ogni nuovo progetto erano originariamente state pensate proprio come processo pubblico da svolgere alla presenza e col contributo delle popolazioni interessate, invitate ad esaminare ogni aspetto economico ed ecologico del progetto. Questo non avviene praticamente mai.

Magari sarebbe utile un piccolo ufficio, in un angolo del Parlamento, con pochi impiegati addetti all’ascolto di chi protesta contro nuovi interventi sul proprio territorio; chi sa che qualche motivo dell’opposizione non sia fondato e che, dandogli retta, si risparmino soldi, si evitino conflitti sociali e, perché no, ci si guadagni in democrazia ?

(Fonte: Gazzetta del Mezzogiorno)



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