Sono passati 105 anni da quando Henry Antoine des Voeux, componente della Società londinese per l’abbattimento del fumo da carbone, coniò un nuovo termine “smog”, sintesi di due parole “smoky fog”, per identificare “quel qualcosa prodotto nelle grandi città, ma inesistente in campagna”.
Sono altresì passati 63 anni dall’episodio acuto di Londra in cui, a causa dell’intenso e persistente smog, si registrarono oltre quattromila decessi aggiuntivi in meno di due settimane.
Tale episodio segnò l’inizio di una nuova scienza, l’epidemiologia ambientale, la quale nell’ultimo mezzo secolo ha disegnato e condotto migliaia di studi di popolazione, evidenziando che l’inquinamento atmosferico è un fattore di rischio certo per malattie cardio-respiratorie.
L’inquinamento atmosferico è associato a mortalità per malattie cardio-respiratorie, tumore al polmone, ricoveri ospedalieri per malattie respiratorie (compresa la polmonite) e per asma, incidenza e riacutizzazione di asma, rinite allergica, sintomi respiratori (tosse, espettorato, respiro sibilante, difficoltà di respiro), riduzione della funzione respiratoria. Inoltre, esso causa un incremento dell’assenteismo lavorativo e scolastico, nonché la necessità di aumentare le dosi di broncodilatatori nei pazienti con patologia ostruttiva cronica. Determina quindi enormi costi socio-economici.
Sono passati 10 anni da quando l’Organizzazione Mondiale della Sanit ha emanato le sue linee guida per il particolato atmosferico (PM), l’ozono (O3), il biossido di azoto (NO2), l’anidride solforosa. Tali limiti, con l’eccezione di quello per l’ossido di azoto, sono molto più restrittivi di quelli ammessi dall’Unione europea.
La conseguenza è ben descritta nel Rapporto dell’Agenzia Ambientale Europea (Air quality in Europe – 2015 report), pubblicato agli inizi di dicembre in concomitanza con l’avvio della Conferenza sul clima COP21 di Parigi. Vi è una variazione enorme tra le stime delle percentuali di esposizione della popolazione europea agli inquinanti: ad esempio, per le particelle inalabili (PM10), secondo i limiti Ue il 17-30% è esposto contro il 61-83% secondo i limiti Oms; gli analoghi valori per le particelle fini (PM2.5) sono 9-14% e 87-93%, e quelli per l’ozono (inquinante tipicamente estivo) sono 14-15% e 97-98%, rispettivamente. Le mappe presenti nel Rapporto mostrano che la pianura padana ed alcune grandi città italiane sono tra le zone europee più inquinate. Il Rapporto stima anche il numero annuale delle morti premature (cioè avvenute prima dell’età aspettata, corrispondente all’aspettativa di vita per un tale Paese, specifica per sesso) in Italia: 59500 per PM2.5, 3300 per O3, 21600 per NO2.
Recentemente, l’iniziativa Aphekom in 10 città europee (inclusa Roma) ha stimato che vivere vicino a strade trafficate sia responsabile del 15-30% di casi di asma (età 0-17 anni) e di cardiopatia ischemia e di broncopneumopatia cronica ostruttiva (età oltre 65 anni).
In Italia, negli ultimi venticinque anni sono stati condotti molti studi epidemiologici per valutare gli effetti dell’inquinamento atmosferico nei centri abitati da parte di istituzioni sanitarie, università e Cnr. I risultati pubblicati sia su riviste scientifiche sia sul web sono stati concordanti con quelli degli studi condotti in altri Paesi, evidenziando la pericolosità dell’inquinamento atmosferico per la salute umana. Da citare, oltre alla partecipazione italiana a studi quali Aphea ed Escape, tra i principali studi condotti in Italia: Misa-1, Misa-2, studio Oms delle 13 città italiane, EpiAir ed EpiAir2; tali studi, utilizzando statistiche sanitarie di routine e dati di monitoraggio ambientale hanno messo in relazione gli eventi sanitari acuti (mortalità, ricoveri ospedalieri) con i livelli di concentrazione degli inquinanti gassosi e particolati. Gli Istituti Cnr di Fisiologia Clinica (Ifc) di Pisa e di Biomedicina ed Immunologia Molecolare (Ibim) di Palermo, oltre a contribuire agli studi succitati, hanno contribuito allo studio Sidria e condotto le indagini sui campioni di popolazione generale del Delta del Po e di Pisa e sul campione di adolescenti di Palermo, confermando gli effetti negativi dell’inquinamento atmosferico con questionari, spirometrie e test allergologici.
In questi giorni l’attenzione dell’opinione pubblica è richiamata dagli elevati livelli di inquinamento atmosferico nella Pianura Padana ed in molti centri urbani del resto d’Italia. Ci si chiede se esistano misure efficaci per ridurre l’esposizione della popolazione agli inquinanti atmosferici.
La letteratura scientifica negli ultimi anni ha mostrato l’efficacia della chiusura dei centri urbani per circa due settimane al traffico privato (da 11 a 41% di riduzione di eventi asmatici acuti durante le Olimpiadi estive di Atlanta 1996 e di Pechino 2008) e l’efficacia della riduzione cronica dei livelli di concentrazione di NO2, PM2.5 e PM10 sui sintomi e la funzione respiratoria (indagini Sapaldia e Scarpol in Svizzera), nonché l’efficacia del bando all’uso di carbone per riscaldamento a Dublino nel 1990 (riduzione del 15% di mortalità per cause respiratorie nei sei anni successivi). Negli Stati Uniti è stato stimato che ogni decremento di 10 microgrammi/metro cubo di PM2.5 è associato ad un aumento di 7 mesi nell’aspettativa di vita.
Lo stato della California ha mostrato che, con politiche adeguate di controllo delle emissioni, tra il 1994 ed il 2011 è stato possibile ottenere riduzioni tra il 15 ed il 54% nelle emissioni di NOx, PM2.5 e PM10, a fronte di un incremento del 38% del traffico veicolare e del 30% della popolazione.
L’Oms nel Piano di Azione 2013-2020 contro le malattie non comunicabili (le quattro principali sono: malattie cardiovascolari, tumori, malattie respiratorie croniche, diabete) ha invitato i governi ad agire per l’abbattimento dei principali fattori di rischio evitabili, tra cui l’inquinamento atmosferico.
Per perseguire tali obiettivi, sono importanti i partenariati tra Oms, governi, istituzioni di ricerca, società scientifiche, associazioni di pazienti. Una tra le più attive è la Global Alliance against chronic Respiratory Diseases (Gard), di cui il Cnr è co-fondatore: in Italia è coordinata dal Dipartimento di Prevenzione del Ministero della Salute.
È inoltre essenziale investire adeguati fondi nel supporto della ricerca scientifica nel campo delle relazioni ambiente-salute. Come ha dimostrato la fase preliminare del Progetto Interdipartimentale Ambiente e Salute, gli istituti Cnr hanno adeguate competenze interdisciplinari per rispondere alle esigenze conoscitive in questo settore in Italia.
Foto: Onewhohelps