Uno studio, pubblicato sul periodico Environmental Research Letters edito da IOP Publishing, ha mostrato che la coltivazione delle terre coinvolte nel fenomeno del land grabbing nei paesi in via di sviluppo ha il potenziale di nutrire 100 milioni di persone, in aggiunta a quelle sfamabili nelle stesse terre con le attuali tecnologie.
Il potenziamento delle infrastrutture derivante dagli investimenti in agricoltura potrebbe infatti incrementare la produttività dei terreni agricoli di sussistenza in paesi come la Papua Nuova Guinea, il Sudan, l’Indonesia ecc. Gli investimenti alla scala globale riuscirebbero così a sfamare almeno 300 milioni di persone in tutto il mondo, paragonati ai circa 190 milioni che potrebbero essere nutriti da tali terre nelle condizioni attuali.
L’acquisto su vasta scala di terreni da parte di società e governi nazionali o esteri comunemente noto con il termine di land grabbing – è una pratica controversa, soprattutto in Africa dove moltissime acquisizioni sono avvenute in regioni con problemi di sicurezza alimentare e di malnutrizione.
C’è chi sostiene che tali investimenti in agricoltura miglioreranno significativamente le rese colturali, genereranno nuovi posti di lavoro e porteranno nuove conoscenze e infrastrutture in aree spesso deprivate. Altri puntano l’accento sul fatto che i prodotti coltivati vengono spesso esportati dagli investitori in altri paesi, obiettando che queste acquisizioni potrebbero sottrarre alle popolazioni locali il controllo sui terreni, l’acqua e le risorse naturali, lasciandole in una condizione persino peggiore di quella attuale.
Lo studio italo-americano svolto dai ricercatori del Politecnico di Milano e dell’Università della Virginia ha quantificato la massima quantità di cibo che può essere prodotta da colture coltivate nelle terre oggetto di acquisizione e il numero di persone che queste potrebbero sfamare. Tali risultati sono stati confrontati con la produzione agricola ottenibile con le pratiche colturali attuali e con il numero di persone nutribili con tali raccolti.
Per conseguire i loro risultati, i ricercatori hanno utilizzato un database alla scala globale contenente le acquisizioni di terreni con una superficie superiore a 200 ettari, avvenute dal 2000 in avanti. Ogni acquisizione di terreno era corredata di informazioni relative alla superficie del terreno e alla coltivazione dominante, oltre che di indicazioni circa la tipologia dell’accordo: contratto firmato o verbale, oppure semplice intesa successiva a una manifestazione di interesse.
I ricercatori hanno calcolato, per ciascuna acquisizione di terra, il massimo rendimento potenziale della coltura/e coltivata e poi utilizzato le calorie dell’alimento per determinare il numero di persone che tale raccolto potrebbe nutrire.
Secondo i calcoli dei ricercatori, se tutti i terreni acquisiti venissero coltivati al massimo del loro potenziale di resa colturale, la produzione di riso, mais, canna da zucchero e palma da olio aumenterebbe rispettivamente del 308%, 280%, 148% e 130%.
Tenendo in considerazione le proporzioni delle coltivazioni che potrebbero essere utilizzate per la produzione alimentare, oltre che del fabbisogno necessario per una “dieta bilanciata”, i risultati hanno dimostrato che le colture prodotte su terreni acquisiti potrebbero nutrire tra 300 e 550 milioni di persone, contro i 190-370 milioni di persone che risulterebbero nutrite da tali terre con le attuali tecnologie.
Sempre secondo i risultati, la classifica dei paesi più coinvolti nel fenomeno del land grabbing vede in testa l’Indonesia, seguita dalla Malesia, dalla Papua Nuova Guinea e dall’ex Sudan. Complessivamente questi paesi potrebbero fornire (nel caso di produzione massima) l’82% delle calorie ottenibili dalla coltivazione di tutte le terre acquisite.
Studi precedenti riferivano che circa 32,9 milioni di ettari di terreni erano stati acquisiti tramite investimenti internazionali su vasta scala per varie finalità. Di questi, 22 milioni erano stati acquisiti a scopo agricolo.
Questo il commento dei ricercatori Maria Cristina Rulli del Politecnico di Milano e Paolo D’Odorico dell’Università della Virginia: “La nostra ricerca ha fornito una valutazione del quantitativo di cibo potenzialmente producibile in terreni soggetti al fenomeno delle acquisizioni di terreno su larga scala”.
Di conseguenza, “Deve esserci la consapevolezza del fatto che se questi alimenti venissero utilizzati per nutrire le popolazioni locali potrebbero alleviare la malnutrizione addirittura, nel caso in cui le terre acquisite non fossero state precedentemente coltivate, anche senza investimenti finalizzati all’aumento della resa colturale.
“Attualmente vi sono ancora domande aperte le cui risposte potrebbero contribuire al dibattito su tale tema e cioè: come vengono gestiti i terreni acquisiti? Ovvero, che ne è degli alimenti prodotti? Vengono esportati dagli investitori? Questi terreni venivano già utilizzati per scopi agricoli prima dell’acquisizione e, se sì, per quali coltivazioni? Con quale resa colturale? Ottenere risposte a queste domande ci permetterebbe di quantificare la diminuzione degli alimenti disponibili per le comunità locali e ci aiuterebbe a trovare strategie di gestione per ridurre le possibili conseguenze negative delle acquisizioni su vasta scala sulle comunità locali”.