Economia circolare è un neologismo relativamente recente usato, principalmente, per indicare le iniziative relative al riciclo dei materiali di scarto e dei rifiuti. Una definizione e analisi ‘ufficiale’ è stata pubblicata come ‘Pacchetto sull’economia circolare: domande e risposte’ a cura della Commissione Europea.
La tesi è che ogni materiale usato può tornare a nuova vita – si può chiudere il cerchio natura-merci-natura-merci – con soluzioni tecnico-scientifiche incoraggiate e sostenute da adatti provvedimenti legislativi, economici e fiscali.
Si tratta, cioè, di imitare, nelle attività economiche, i cicli della natura nella quale non esistono rifiuti perché le scorie della vita vegetale e animale diventano materie prime per altre forme di vita, grazie agli organismi decompositori che li trasformano in sostanze utili per il nutrimenti di altri vegetali e poi animali, e così via.
Tutto questo, pur con continui mutamenti, è andato avanti per milioni di anni fino a quando è comparso un animale speciale della specie Homo sapiens; a lungo le modificazioni della natura da lui apportate sono state modeste e i nostri predecessori si sono comportati a lungo più o meno come organismi animali, nutrendosi di frutti, bacche e piante e della carne di animali catturati con la caccia, restituendo i propri escrementi al suolo. La svolta si avuta circa diecimila anni fa quando qualche comunità di questi raccoglitori-cacciatori ha scoperto che alcuni vegetali potevano coltivati e che alcuni animali potevano essere allevati. I nostri predecessori diventati coltivatori-allevatori hanno cominciato a modificare l’ambiente circostante estraendo pietre per costruire rifugi più duratori delle caverne. La scoperta che alcune pietre col fuoco potevano essere trasformate in metalli adatti per rendere il suolo più coltivabile e per uccidere gli animali ha provocato i primi fenomeni di inquinamento con i fumi; l’allevamento intensivo ha fatto sì che gli escrementi degli animali fossero ‘troppi’ rispetto alla capacità di assimilazione da parte del suolo e nel vocabolario sono entrate nuove parole come inquinamento e rifiuti.
Dal rifiuto inquinante a rifiuto riciclabile
Qualcuno ha scoperto che alcuni rifiuti potevano essere riutilizzati e trasformati in altri prodotti utili commerciali e questo ha anche dato vita ad attività industriali e commerciali. A guardare meglio queste attività di riciclo dei rifiuti, è facile constatare che la quantità di prodotti utili recuperati è sempre inferiore e la qualità peggiore rispetto a quelle dei rifiuti trattati. L’economista americano Nicholas Georgescu-Roegen (1906-1994) nel libro ‘The entropy law and the economic process’ (1971) assimilò questo degrado della materia in ogni operazione di riciclo con quanto avviene per l’energia con il secondo principio della termodinamica. Quasi contemporaneamente il biologo americano Barry Commoner (1917-2012), nel libro ‘The closing circle’ (1972, in italiano, ‘Il cerchio da chiudere’, Garzanti) spiegò che si sarebbe potuto diminuire l’inquinamento e migliorare il riciclo delle scorie se i processi industriali fossero stati modificati in modo da assomigliare di più ai ‘cicli chiusi’ della natura. Per esempio producendo merci i cui rifiuti fossero degradabili dagli organismi decompositori naturali o meglio riciclabili: una vera e propria terza rivoluzione industriale e commerciale.
Pur con la consapevolezza che non sarebbe mai stato possibile arrivare ad una società con riciclo integrale, con rifiuti zero, molti progressi sarebbero stati possibili se i rifiuti fossero stati raccolti in modo da mettere insieme tutti quelli che possiedono caratteri chimici simili per facilitare la loro trasformazione ancora in merci utili.
Ciò poteva essere realizzato con varie pratiche di ‘raccolta differenziata’ il cui successo, peraltro, dipende in gran parte dalla conoscenza dei caratteri dei rifiuti, una operazione culturale. Una efficace raccolta di rifiuti è possibile in alcuni processi commerciali e industriali; nella grande distribuzione è possibile raccogliere separatamente alcuni tipi di imballaggi come i cartoni, quasi subito riciclabili con limitate perdite; il trattamento di residui di merci complesse, come macchinari e autoveicoli, costituiti da componenti di diversi materiali, comporta trattamenti di preselezione più complessi; nel caso dei rifiuti delle famiglie è più difficile ottenere le varie frazioni separate efficacemente, anche perché i consumatori non si rendono conto, in generale, che le varie frazioni della raccolta differenziata sono utilmente riciclabili soltanto se di qualità quanto più possibile omogenea. Il riciclo insomma sarà tanto più efficace quanto più il produttore di rifiuti e il riciclatore saranno informati sulla provenienza dei rifiuti e sulla loro composizione chimica e fisica; sulla merceologia dei rifiuti*.
Il recupero dello zolfo dalle fonti di energia
Uno dei settori che sta ricevendo grande attenzione dal punto di vista ambientale è quello dei rifiuti delle fonti di energia fossili, oggi usate in ragione di circa 13 miliardi di tonnellate all’anno sotto forma di carbone (circa 6), petrolio (circa 4) e gas naturale (circa 3 miliardi di t/anno). ‘Purtroppo’ la natura ha preparato queste fonti fossili nel sottosuolo, trattando ammassi di organismi vegetali o animali vissuti centinaia di milioni di anni fa e poi sepolti sotto strati di rocce, e poi decomposti con processi chimici e microbiologici, senza pensare che un giorno sarebbero stati bruciati nei forni, nelle fabbriche e nelle automobili e che alcuni componenti avrebbero potuto essere nocivi per i futuri ‘consumatori’. Una delle prime nocività riciclabili dell’uso dei combustibili fossili è stato lo zolfo, presente in quasi tutti i combustibili fossili in varie forme chimiche, da zolfo elementare a idrogeno solforato a solfuri metallici a zolfo combinato in molecole organiche, in concentrazioni da pochissime ad alcune unità percento.
Durante la combustione dei carboni lo zolfo si libera in forma ossidata, come SO2 e SO3; questi ossidi si combinano con altre componenti della combustione e dell’aria e ricadono come acidi al suolo, trascinati dalle polveri o dalle piogge. Questo inquinamento, combinato con quello dovuto agli ossidi di azoto che pure si formano nelle combustioni, è stato riconosciuto come fonte di ‘piogge acide’, un termine coniato nel 1872 dal chimico scozzese Robert Angus Smith (1817-1884), con effetti corrosivi sulle strutture degli edifici, su qualsiasi materia esposta all’aria e con alterazione del pH dei laghi e danni ai boschi.
In seguito a numerose proteste i governi hanno cominciato a porre dei limiti alla quantità massima di zolfo consentita nei vari combustibili; molte centrali termoelettriche a carbone hanno dovuto applicare dei processi di assorbimento degli ossidi di zolfo su sali inorganici; si sono così formate rilevanti quantità di solfato di calcio dal quale lo zolfo è difficilmente recuperabile. Più favorevole è la situazione del recupero dello zolfo durante la raffinazione del petrolio e durante l’estrazione del gas naturale.
In questi casi in genere si ha a che fare con idrogeno solforato o con solfuri che possono essere trattati con processi chimici che consentono il recupero di zolfo in forma vendibile. È stato così riscoperto un processo che era stato inventato nell’Ottocento dal chimico Friedrich Claus (1827-1900) per recuperare zolfo dal solfuro di calcio, sottoprodotto dell’industria del carbonato di sodio. L’idrogeno solforato ottenuto dal solfuro di calcio, e ora dai gas naturali acidi e dai gas di raffineria, viene dapprima in parte ossidato ad anidride solforosa. Questa, per reazioni, abbastanza complicate, con altro idrogeno solforato, produce zolfo:
2 H2S + 4 O2 à 2 SO2 + 4 H2O, e poi: 4 H2S + 2 SO2 à 6 S + 4 H2O.
Il processo Claus, un vero e proprio caso di economia circolare, ha portato una rivoluzione nel mercato mondiale dello zolfo; ha reso antieconomica l’estrazione dello zolfo col processo Frasch e addirittura nel mondo c’è oggi un eccesso di zolfo rispetto alla richiesta.
Merci dall’anidride carbonica
Restava un secondo inconveniente: la combustione del carbonio dei combustibili fossili genera, per reazione con ossigeno, anidride carbonica, un gas non nocivo per la salute, fino a quando la sua concentrazione nell’atmosfera è bassa, utile e anzi indispensabile per la crescita della vegetazione. Se non che, col crescente uso di combustibili fossili, si è visto che la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera aumentava ‘troppo’; all’inizio del Novecento Il fisico Svante Arrhenius (1859-1927) aveva fatto dei conti e aveva suggerito che un aumento della concentrazione di CO2 nell’atmosfera avrebbe potuto modificare l’equilibrio fra l’energia solare in arrivo sulla Terra e il calore rigettato dalla Terra nello spazio, al punto da provocare un lento graduale aumento della temperatura media del pianeta. All’inizio del secolo scorso la quantità di anidride carbonica presente nell’atmosfera era di circa 2.300 miliardi di tonnellate, corrispondente ad un valore di circa 280 ppm in volume. Nel 2015 è diventata di oltre 3.000 miliardi di tonnellate, pari a circa 400 ppm in volume. Ogni anno le attività umane immettono nell’atmosfera circa 40 miliardi di tonnellate di CO2, circa venti delle quali si aggiungono a quella già esistente; una situazione insostenibile, come hanno dovuto rendersi conto i rappresentanti di tutti i Paesi nella conferenza del dicembre 2015 di Parigi sui cambiamenti climatici.
Per rallentare l’irreversibile riscaldamento terrestre è stato proposto di aumentare la superficie di boschi e di impedire la distruzione delle foreste esistenti. Oppure si potrebbero raccogliere i gas che escono dal camino delle centrali termoelettriche e di grandi caldaie, che peraltro contengono CO2 diluita in un volume sei volte più grande di altri gas, concentrarla per assorbimento su ammine come etanolammina e convogliarla in tubazioni per immetterla nei mari, in superficie o a grande profondità dove la CO2 per l’elevata pressione, diventa liquida e può stratificarsi sul fondo, con l’inconveniente che la CO2 che si scioglie nelle acque marine ne fa aumentare l’acidità con turbamento dei cicli biologici.
Altri hanno proposto di immettere la CO2 raccolta dai camini, nelle caverne sotterranee lasciate libere dopo l’estrazione di sale, di petrolio o di gas naturale, oppure di iniettarla sotto pressione nei giacimenti petroliferi col vantaggio, affermano, di aumentare la quantità di petrolio estratto.
L’economia circolare suggerisce invece di utilizzare la CO2 per trarne prodotti commerciali; la CO2 occorre in alcune sintesi chimiche come quella dell’urea, ma in questo caso la fonte privilegiata è l’utilizzazione della CO2 più concentrata che si forma come sottoprodotto di altre reazione come la sintesi dell’ammoniaca.
Ai fini dell’uso della CO2-rifiuto delle combustioni presenta qualche migliore prospettiva la possibilità di riciclare il carbonio che essa contiene con processi C1, a ‘un-solo-atomo-di-carbonio’. Dal punto di vista chimico la cosa è non solo attraente ma anche possibile, a condizione di disporre di un agente riducente e poco costoso che ‘porti via’ l’ossigeno dalla CO2. Naturalmente la prima sostanza che viene in mente è l’idrogeno il quale però, al di là del costo monetario, ha un elevato costo energetico. L’idrogeno potrebbe essere ricavato dal trattamento elettrolitico dell’acqua che però richiede circa 40-50 chilowattore di elettricità per ogni kg di idrogeno. Inutile dire che qualcuno propone sempre di ridurre l’indesiderabile effetto serra della CO2 usando l’idrogeno prodotto con l’elettricità di ancora più indesiderabili centrali nucleari. Un altro riducente potrebbe essere il metano ma l’uso di questi due agenti riducenti sarebbe giustificato se, oltre a diminuire il danno ambientale della CO2 , si ottenessero sostanze pregiate dal punto di vista di un limitato costo ambientale complessivo, forse alcol metilico o altri composti. La realizzazione di una economia circolare in questo campo, insomma, richiede ancora molto lavoro.
Un certo interesse è rivolto all’uso della CO2, opportunamente purificata, proveniente dalla combustione di combustibili fossili, nelle serre per aumentare le rese dei vegetali o in adatte vasche come ‘nutrimento’ di alghe fotosintetiche, esposte all’energia solare, utilizzabili come fonti di carburanti ‘verdi’ o di proteine per l’alimentazione animale.
Il metano, un rifiuto della natura
Nel campo delle fonti di energia un certo interesse sta ricevendo il recupero di un altro rifiuto delle attività energetiche, il metano, un gas serra, a parità di peso circa venti volte più ‘potente’ dell’anidride carbonica come effetto di riscaldamento planetario. Presente nell’atmosfera in ragione di circa 2,3 ppm in volume (circa 10.000 milioni di tonnellate come massa complessiva), le sue emissioni annue ammontano a circa 500 milioni di tonnellate all’anno. Si tratta del metano che sfiata dai pozzi metaniferi; in parte viene bruciato ma in parte sfugge e finisce nell’atmosfera, difficilmente recuperabile.
Diversa è la situazione del metano proveniente dalle miniere di carbone abbandonate; nei giacimenti sotterranei di carbone si liberano piccole ma apprezzabili quantità di metano; chiamato grisou è il terribile nemico dei minatori; quando la sua concentrazione raggiunge livelli elevati, a contatto con una fiamma provoca esplosioni che hanno ancora oggi effetti drammatici, con crolli che costano centinaia di morti ogni anno. Vengono seguite norme di sicurezza sempre più rigorose ma il prezzo di vite umane associato a crolli durante l’estrazione dei circa 6 miliardi di tonnellate all’anno di carbone è ancora elevato.
*Per iniziative italiane nel campo dell’economia circolare si vedano, fra le altre, la pubblicazione dell’associazione Symbola, http://www.symbola.net/html/article/wasteend_ricerca (marzo 1995), e il volume ‘L’Italia del riciclo 2015’ (dicembre 2015), della Fondazione per lo sviluppo sostenibile, http://www.fondazionesvilupposostenibile.org/documenti.