Energy&Strategy Group: pubblicata la seconda edizione dell’Energy Efficiency Report
È stata pubblicata la seconda edizione dell’Energy Efficiency Report dell’Energy&Strategy Group del Politecnico di Milano. Basato su oltre 150 interviste ad operatori ed esperti del settore, il rapporto vuole fornire gli elementi necessari a supportare il dibattito pubblico e ad orientare le scelte degli operatori di mercato sul tema dell’efficienza energetica in ambito industriale. Oltre ad analizzare l’impatto dei sistemi di regolazione ed incentivazione attualmente in essere e in fase di definizione sul mercato e la filiera dell’efficienza in ambito industriale, lo studio fornisce una stima della fattibilità economica e del potenziale di mercato delle principali soluzioni per l’efficienza energetica nei processi produttivi e identifica le più importanti leve su cui agire per favorire una più capillare diffusione delle soluzioni per l’efficienza energetica in impresa, con particolare riferimento al ruolo delle ESCo, dell’energy manager e degli istituti di credito.
L’analisi è in questo momento ancora più di attualità se si considera che la Strategia Energetica Nazionale recentemente presentata dal Governo pone l’efficienza energetica al primo posto fra le priorità di intervento, accreditandole circa 60 (33%) dei 180 miliardi di investimenti complessivi e 8 (57%) dei 14 miliardi di risparmio da conseguire sulla bolletta energetica dell’Italia da qui al 2020.
L’indagine dell’Energy&Strategy Group dimostra che, sommando i risparmi elettrici teorici conseguibili a seguito dell’adozione delle tecnologie efficienti (comprensivi anche della produzione da fonti rinnovabili), da qui al 2020 è possibile risparmiare circa 64 TWh, ossia quasi la metà del fabbisogno attuale ascrivibile al settore industriale. Rispetto al potenziale teorico, tuttavia, l’obiettivo che lo studio ritiene invece sia plausibile raggiungere in Italia da qui al 2020 è nell’ordine di 16 TWh, ossia soltanto un quarto di quanto teoricamente a disposizione.
Tre sono le ragioni di una simile differenza. Innanzitutto il fatto che, nonostante le tecnologie per l’efficienza energetica nell’industria siano già oggi (anche in assenza di incentivi) economicamente sostenibili, il tempo di rientro degli investimenti è ancora in media piuttosto elevato – tra 3 e 7 anni – se comparato con le soglie massime di accettabilità tipicamente fissate dalle imprese per questo tipo di investimenti, forse un po’ troppo prudentemente definite nell’attorno di 1 o 2 anni. In secondo luogo, il fatto che il quadro normativo nel nostro Paese sconta un ritardo significativo rispetto ad esempio al benchmark europeo. L’11 settembre del 2012 si è chiuso l’iter legislativo relativo all’approvazione in prima lettura da parte del Parlamento Europeo della nuova Direttiva europea in materia di efficienza energetica, destinata a sostituire l’ormai famosa – e relativamente recente – Direttiva 2006/32/CE.
Nel frattempo però in Italia si è ancora alle prese con il recepimento in una versione depotenziata della Direttiva 32/2006/CE, senza meccanismi di qualificazione prescrittivi e con il fondo rotativo di finanziamento degli interventi (Fondo Rotativo Kyoto previsto dalla Finanziaria 2007) che è divenuto effettivamente operativo solo nel 2012. Solo un manipolo di operatori industriali si è certificato ISO 50001, seguiti da 27 ESCo (l’1,4% del totale di quelle iscritte all’Aeeg) certificate UNI CEI 11352:2010 e 30 professionisti in gestione dell’energia!
Anche sul fronte dei TEE – dove pure non sono mancati segnali positivi legati alla riduzione della soglia minima per la presentazione dei progetti e l’introduzione, più volte chiesta a gran voce dal mercato, del coefficiente di durabilità ‘τ’ che tiene conto della vita tecnica attesa degli interventi – rimane come una spada di Damocle sui progetti di investimento in corso di valutazione l’incertezza sul futuro del meccanismo a partire dal 1 gennaio 2013.
Infine, in Italia una vera cultura dell’efficienza energetica – negli operatori industriali, ma anche nelle banche e negli istituti di credito – è ancora assai poco diffusa. Poco meno del 17% delle imprese del campione di indagine analizzato nel Rapporto – se si escludono ovviamente quelle obbligate dalla Legge 10/91 perché aventi consumi annui superiori ai 10.000 TEP – dispone di un energy manager.
Solo il 22% delle imprese adotta un approccio strutturato alla gestione dell’energia, contro un 69% di operatori che adotta invece ancora oggi approcci piuttosto rudimentali di misura e controllo dei consumi energetici, e quasi il 15% che addirittura non ha attivato nemmeno questi.
Nel 90% dei casi il driver decisionale primario che ha guidato gli investimenti di efficientamento energetico è legato all’obsolescenza o all’efficientamento produttivo, ossia non ha quasi nulla a che vedere con la ricerca specifica di un risparmio nei consumi e/o nei costi energetici. È evidente, infatti, che se si sostituisce un impianto ormai completamente ammortizzato, magari acquistato oltre dieci anni fa, con un nuovo impianto si ottiene anche un risparmio energetico, perché nel frattempo il progresso tecnologico associato a questo tipo di impianti ne ha comunque incrementato l’efficienza e quindi (a parità di output) ne ha ridotto i consumi. Di contro, solo nel 10% dei casi la riduzione dei consumi energetici, ossia l’essenza stessa dell’efficientamento, è stata il driver primario di scelta.
Nel 71% dei casi i progetti di investimento si sono scontrati con barriere di natura economica e gli operatori puntano il dito in particolare contro le banche italiane, che al momento si rivelano essere piuttosto riluttanti rispetto al finanziamento degli interventi di efficienza energetica, sia quando essi sono direttamente realizzati dalle imprese sia quando lo sono in cordata con le ESCo. Il problema non è di facile soluzione, tuttavia, in quanto – se ci si mette nella prospettiva del finanziatore – il rischio relativo ad esempio al perdurare dei meccanismi di incentivazione si abbatte sulla capacità di costruire piano di rientro sufficientemente garantiti.
Solo due fattori paiono addolcire un poco il quadro: il 64% delle imprese del campione conosce le ESCo ed ha valutato o sta valutando l’opportunità di usufruire dei loro servizi, anche se ancora il 40% di queste imprese indica come unica funzione della ESCo l’espletamento dell’iter burocratico di ottenimento dei TEE (e la eventuale successiva gestione), mentre solo il restante 24% le reputa un interlocutore potenzialmente interessante per competenze tecniche e capacità finanziarie al fine di realizzare interventi di efficienza energetica. Inoltre lo sblocco del Fondo Centrale di Garanzia per le PMI agli interventi di efficienza energetica può permettere di incrementare, per lo meno sulla carta, il merito di credito delle ESCo italiane nei confronti delle banche. È auspicabile – anche se non certo – che questi, assieme all’enfasi che all’efficienza energetica viene data nella Strategia Energetica Nazionale possano rappresentare i primi segnali di una inversione di rotta in positivo del nostro Paese.
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