Ogni anno vengono sprecate e perse circa 1,3 miliardi di tonnellate di cibo, un terzo della produzione mondiale e l’equivalente di quasi 1 trilione di dollari in valore. Un quarto del cibo sprecato basterebbe per nutrire i 795 milioni di persone che soffrono la fame.
Un paradosso eloquente e drammatico, che richiede un impegno concreto e urgente da parte di tutti. In occasione della Giornata dell’Ambiente, che quest’anno avrà la sua celebrazione ufficiale a Expo Milano 2015, la Fondazione Barilla Center for Food and Nutrition (Bcfn) rilancia l’obiettivo del Protocollo di Milano: ridurre lo spreco di cibo del 50% entro il 2020. Come? Intervenendo sull’intera filiera, dagli agricoltori ai consumatori: con attività di prevenzione, per evitare gli sprechi fin dall’inizio del processo produttivo, e poi imparando a riutilizzare gli avanzi di cibo per l’alimentazione umana e per quella animale, ed infine per la produzione di energia e compostaggio.
Spreco di cibo non è soltanto quello che si verifica nella parte finale della catena alimentare, durante la distribuzione, vendita e consumo (food waste, secondo la definizione della Fao), ma è anche la perdita che avviene nella fase di produzione agricola, dopo la raccolta e con la trasformazione degli alimenti (food losses). Sprechi e perdite sono profondamente influenzati dalle condizioni locali specifiche dei diversi Paesi. Lo spreco di cibo da parte dei consumatori è in media tra i 95 e i 115 kg pro capite all’anno in Europa e nel Nord America mentre i consumatori di Africa sub-sahariana, sud e sud-est asiatico, ne buttano via circa 6-11 kg all’anno. Nei Paesi in via di sviluppo il 40% delle perdite avviene dopo la raccolta o durante la lavorazione, mentre nei Paesi industrializzati più del 40% delle perdite si verifica nelle fasi di vendita al dettaglio e consumo finale. Complessivamente, tuttavia, i Paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo tendono a dissipare all’incirca la stessa quantità di cibo, rispettivamente 670 e 630 milioni di tonnellate.
Gli sprechi alimentari hanno un impatto negativo sull’ambiente, sull’economia, sulla sicurezza alimentare e sulla nutrizione”, afferma Ludovica Principato, Dottoranda in Management presso l’Università la Sapienza di Roma e ricercatrice della Fondazione Bcfn. “Il carbon footprint globale del cibo perso e sprecato a livello globale è di circa 3,3 miliardi di tonnellate di CO2 ed equivale al 6-10% circa delle emissioni di gas serra antropogeniche, cioè prodotte dall’uomo. Se gli sprechi alimentari fossero rappresentati da un Paese, questo sarebbe il terzo principale produttore di anidride carbonica, dopo Stati Uniti e Cina. Lo spreco inoltre comporta una riduzione della disponibilità globale e locale di cibo ed ha un impatto negativo sull’accesso al cibo da parte delle persone a causa ad esempio dell’aumento dei prezzi, con ripercussioni soprattutto sulla parte più vulnerabile della popolazione come le donne e i bambini”.
Il cambiamento climatico sia in termini di riscaldamento globale sia di scarsità delle precipitazioni in alcune regioni del Pianeta”, commenta Riccardo Valentini, professore ordinario all’Università della Tuscia e membro dell’Advisory Board Bcfn, “contribuirà ad aumentare i prezzi globali dei beni alimentari in una forbice dal 3% all’84% entro il 2050, con serie minacce per la produzione di cibo e la sicurezza. Attualmente sono oltre 800 milioni le persone che soffrono gravemente di malnutrizione nel mondo e circa 36 milioni muoiono per mancanza di cibo. Affrontare con successo il problema dell’accesso al cibo è quindi la grande sfida degli anni a venire”.
In Italia si spreca il 35% dei prodotti freschi (latticini, carne, pesce), il 19% del pane e 16% di frutta e verdura. Lo spreco di cibo nel nostro Paese determina una perdita di 1.226 milioni di m3 l’anno di acqua, pari al 2,5% dell’intera portata annua del fiume Po, e produce l’immissione nell’ambiente di 24,5 milioni di tonnellate CO2 l’anno, di cui 14,3 milioni per gli sprechi domestici. L’assorbimento della sola CO2 prodotta dallo spreco domestico in Italia richiede una superficie boschiva maggiore di quella presente in Lombardia.
Il Bcfn propone alcune specifiche e concrete raccomandazioni per ridurre le dimensioni e l’impatto dello spreco di cibo, tra cui: ridurre per recuperare meno – investire prima nella riduzione delle perdite e degli sprechi alimentari e poi sul loro recupero; (ri)utilizzare – avviare iniziative di recupero degli sprechi non ancora eliminati, attraverso la distribuzione a persone svantaggiate, l’impiego come mangime o, come ultima alternativa, per produrre bioenergia; una priorità politica – governare la riduzione dello spreco a livello istituzionale, anche assicurando che l’adozione di standard non introduca perdite e sprechi ingiustificati lungo la filiera agroalimentare; cooperare per risparmiare – sviluppare accordi di filiera tra agricoltori, produttori e distributori per una programmazione più corretta dell’offerta alimentare; informare per educare – rendere il consumatore consapevole dello spreco e insegnargli come rendere più sostenibili l’acquisto, la conservazione, la preparazione e lo smaltimento finale del cibo.
Le diverse soluzioni possibili indicano innanzitutto una necessità: intervenire lungo tutta la filiera alimentare, dagli agricoltori alle aziende di trasformazione e distribuzione fino al consumatore finale. Perché la soluzione al paradosso dello spreco di cibo è una responsabilità condivisa.
Un messaggio che il Bcfn ha ribadito con forza anche in vista del summit che si tiene oggi 4 giugno a Milano con i Ministri dell’Agricoltura provenienti da diversi Paesi di tutto il mondo: una tappa importante della road map della Carta di Milano, che ha già superato le 100.000 firme ed alla quale tutti sono invitati ad aderire.