Applicazione del Protocollo di Kyoto in Italia: i primi bilanci

Pubblicato il 11 dicembre 2006

Poche informazioni precise, confusione sulle tempistiche, continui cambiamenti nella normativa. La mancanza di chiarezza è la principale difficoltà incontrata dalle imprese coinvolte nella prima fase di attuazione della direttiva europea Emissions Trading (2003/87/CE), attraverso la quale viene applicato in Europa il Protocollo di Kyoto. Le stesse imprese esprimono dubbi sull’efficacia del Protocollo nel contribuire al miglioramento dei problemi ambientali, ma allo stesso tempo evidenziano una conoscenza piuttosto scarsa dei suoi contenuti e dei meccanismi che ha introdotto per contrastare i cambiamenti climatici.

Lo rivela una recente indagine sul tema “Le imprese italiane e il Protocollo di Kyoto” realizzata da TNS Infratest e InSintesi per conto dell’ente di certificazione internazionale DNV (Det Norske Veritas), da anni impegnato nelle attività di verifica indipendente delle emissioni di gas serra. L’indagine è stata condotta attraverso 100 interviste telefoniche a un campione rappresentativo delle aziende dei settori industriali interessati dalla Direttiva Emissions Trading, vale a dire energia, siderurgia, cemento, calce, vetro, laterizi e carta.

I risultati della ricerca evidenziano chiaramente che la principale difficoltà con cui le aziende hanno dovuto fare i conti è stata una generale mancanza di chiarezza, nel senso di carenza di informazioni precise (per il 37% degli intervistati), confusione sulle tempistiche (20%), continui cambiamenti e poca chiarezza nella normativa (12%). Da non sottovalutare anche il peso degli adempimenti burocratici cui le aziende sono state costrette, che è stato indicato come il problema maggiore dal 20% degli intervistati. Mentre l’aumento dei costi rappresenta la difficoltà principale solo per il 14% degli intervistati. È tuttavia comune alla maggior parte delle aziende la consapevolezza che l’adeguamento alla normativa e la sua applicazione comporteranno un aggravio dei costi nel medio e lungo periodo: ne è convinto l’80% degli intervistati. Ma solo il 30% pensa di non riuscire a rientrare da queste spese. La maggioranza, invece, riuscirà a compensare i maggiori oneri: il 36% taglierà i costi, principalmente attraverso uno sforzo di miglioramento dell’efficienza e di adeguamento degli impianti, mentre il 25% aumenterà i prezzi. Il 17,5% non sa.

Il 60% degli intervistati ritiene che la prima fase di applicazione delle direttiva Emissions Trading abbia inciso poco o per niente sulla posizione competitiva della propria azienda. D’altro canto, il 70% esprime dubbi sulla reale efficacia del Protocollo di Kyoto ai fini della soluzione del problema del riscaldamento globale. Così come il 65% sostiene che non apporti alcun beneficio né offra alcuna opportunità alle aziende coinvolte.

Va sottolineato che questo giudizio sul Protocollo si accompagna a una conoscenza piuttosto scarsa dei suoi contenuti e dei meccanismi che ha introdotto per contrastare i cambiamenti climatici. Solo il 48% dichiara di conoscere il sistema di scambio delle quote di emissione (Emissions Trading), mentre percentuali ancora più basse raccolgono gli altri due meccanismi: Joint Implementation (40%) e Clean Development Mechanism (35%).

Per quanto riguarda la seconda fase di applicazione della Direttiva Emissions Trading (2008-2012), il 50,5% degli intervistati prevede di raggiungere gli obiettivi assegnati ricorrendo all’acquisto di quote di emissione e il 41,5% riducendo le proprie emissioni. Come? Investendo nel miglioramento dell’efficienza e nelle energie alternative o puntando su combustibili da fonti rinnovabili. Solo il 4,9% ricorrerà a progetti di Joint Implementation e saranno ancora meno le aziende che investiranno in iniziative basate sul Clean Development Mechanism (3,1%).

Il 74% degli intervistati dichiara di essere a conoscenza del nuovo Piano Nazionale di Assegnazione (PNA) delle quote di CO2 per il periodo 2008-2012, che al momento della realizzazione dell’indagine era stato reso noto da poco. Nel merito, oltre il 49% lo giudica per vari motivi insoddisfacente e iniquo, mentre il 21,2% lo considera accettabile e l’11,1% non vi trova alcuna novità rispetto al Piano precedente. Gli altri non commentano o si riservano un giudizio dopo un esame più approfondito.

Infine, l’83% degli intervistati ritiene che negli altri Paesi europei le aziende abbiano affrontato in modo più efficace l’adeguamento alla direttiva Emissions Trading. In particolare, Germania e Francia sono considerati i Paesi più “virtuosi”.

Per ogni azienda è stato intervistato il responsabile dell’applicazione della normativa europea e nazionale di attuazione del Protocollo di Kyoto. La figura aziendale cui è affidato questo incarico è il responsabile ambiente nel 55% dei casi. È un impegno non trascurabile al quale vengono dedicate fino a 5 ore alla settimana nel 38% dei casi e più di 5 ore settimanali nel 34% dei casi. Vi sono coinvolti in misura significativa anche amministratori delegati, direttori generali e direttori finanziari

“I risultati della ricerca confermano che il Sistema Paese ha affrontato gli impegni del Protocollo di Kyoto con ritardo e senza una vera visione strategica. Un ritardo di cui hanno ovviamente sofferto le aziende coinvolte. Va aggiunto che in Italia le imprese sono mediamente di piccole dimensioni e si trovano spesso in difficoltà nell’applicare normative e politiche internazionali. Tuttavia, è importante sottolineare come la prima fase della direttiva Emissions Trading, che è una sorta di ‘test’ in vista della concreta applicazione del Protocollo nel periodo 2008-2012, stia sostanzialmente raggiungendo i propri obiettivi: orientare le aziende a considerare le emissioni di gas serra come ‘asset’ e a valutare strategie di comprevendita sul mercato, nonché investimenti e conversioni di tecnologie”, ha commentato Zeno Beltrami, Responsabile Progetti Climate Change, DNV Italia.