Gli impianti di ventilazione diffondono il nuovo coronavirus?

Pubblicato il 1 aprile 2020

In relazione ai numeri del focolaio epidemico da Coronavirus che si è registrato in Lombardia, molto superiori rispetto alle esperienze vissute da altri Paesi, da più parti si è cominciato a porre l’attenzione sul ruolo che gli impianti di climatizzazione e ventilazione possono aver avuto in questo fenomeno. In particolare, ci si è chiesti se gli impianti di climatizzazione ospedalieri possano aver favorito la diffusione del virus. Sul punto il Dott. Andrea Casa, Presidente Emerito dell’Associazione Italiana Igienisti dei Sistemi Aeraulici (AIISA), argomenta questa convinzione ricordando i motivi per i quali gli impianti di trattamento aria possono avere un ruolo attivo nella diffusione del virus.

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1) I virus possono penetrare negli impianti dell’aria, attraverso il circuito di ricircolo, oppure a causa di fenomeni di cross contamination.

Per motivi legati al risparmio energetico e a causa di una certa vetustà delle installazioni, la realtà impiantistica italiana, anche ospedaliera, presenta ancora molti impianti dotati di un circuito di ricircolo dell’aria. Per comprendere come questo ricircolo possa costituire un problema dal punto di vista igienico, è necessario accennare brevemente al funzionamento degli impianti di trattamento aria. Semplificando al massimo, potremmo dire che essi prendono determinate quantità di aria esterna e la introducono all’interno degli edifici, in ambiente indoor, dopo averla filtrata e dopo averle conferito il giusto grado di umidità relativa e temperatura.  Contemporaneamente però, tali impianti devono anche estrarre una corrispondente quantità d’aria dagli ambienti, per evitare che aumenti la pressione interna ad essi. Il problema è che estrarre tutta l’aria precedentemente introdotta, dopo averla riscaldata o raffrescata, costituisce uno spreco in termini energetici. Per questo motivo, molti impianti riprendono una percentuale significativa di quest’aria (normalmente superiore al 70%) e la riutilizzano, la reintroducono negli ambienti in un ciclo continuo. Appare però evidente che, qualora negli ambienti climatizzati si trovassero dei soggetti affetti da Covid-19, si verificherebbe il rischio che le goccioline infette emesse tossendo o respirando da parte di questi soggetti, potrebbero essere captate dal sistema di ricircolo ed entrare nel flusso dell’aria. Con la conseguenza, non trascurabile, che i virus potrebbero essere successivamente reintrodotti negli ambienti, anche in punti molto lontani da quelli in cui erano stati prelevati. E se, come talvolta accade, gli stessi impianti servissero reparti diversi, o addirittura più piani dello stesso edificio, esisterebbe il rischio concreto che il virus fosse veicolato laddove non si sarebbe preparati ad affrontarlo. Lo stesso problema potrebbe poi porsi al di fuori del mondo ospedaliero, pensando alle case di riposo, agli uffici o alle abitazioni private, situate in palazzi con l’impianto dell’aria centralizzato.

È per questo motivo che, in ottica di contenimento dell’epidemia, il primo e indifferibile provvedimento da prendere è quello dell’esclusione del circuito di ricircolo degli impianti, come suggerito anche nelle recenti Linee Guida dell’Istituto Superiore di Sanità. Anche laddove si intraprenda tale cautela, però, è necessario verificare se sussista un pericolo di eccessiva contiguità delle prese d’aria con i punti di espulsione in esterno. Vediamo di spiegarlo meglio: nella nostra attività professionale quotidiana osserviamo che in alcune realtà i punti in cui gli impianti aspirano l’aria esterna, sono pericolosamente vicini a quelli in cui l’aria proveniente dai locali interni agli edifici viene espulsa in atmosfera. In tal caso si potrebbe verificarsi un pericoloso by-pass nei flussi d’aria, a causa del quale l’aria proveniente dai locali in cui il virus è presente, verrebbe aspirata da un altro impianto e introdotta negli ambienti che esso va a climatizzare. In tal modo il virus potrebbe passare da un impianto all’altro e diffondersi in spazi ed edifici diversi. È questo un tipico caso di cross contamination, contaminazione trasversale, che gli igienisti aeraulici italiani ben conoscono e hanno imparato a controllare. Pensiamo a cosa potrebbe accadere se da un reparto di Malattie Infettive, in cui sono ricoverati decine di ammalati di Covid-19, masse d’aria contenenti il virus arrivassero all’impianto che serve un altro reparto, ad esempio, di Oncologia. Inoltre, questo fenomeno rischia di essere ancor più rilevante in un periodo come quello che stiamo vivendo, in cui nelle strutture ospedaliere si spostano reparti interi e si occupano nuovi spazi per far fronte all’emergenza sanitaria. Se tutto ciò avvenisse senza prestare attenzione agli impianti di trattamento aria e senza procedere preventivamente ad una completa mappatura dei flussi d’aria in ingresso e in uscita dagli ambienti indoor, ci troveremmo sicuramente in una situazione di forte rischio biologico. A questo riguardo, un altro fattore da non trascurare è la gestione delle pressioni differenziali tra locali adiacenti, che normalmente viene assicurata dagli impianti di trattamento aria e dal bilanciamento tra aria immessa ed aria estratta. I locali “sporchi”, in cui si trovano i soggetti affetti dal virus, dovrebbero sempre trovarsi ad una pressione inferiore rispetto ai locali adiacenti considerati “puliti”, in modo che i flussi d’aria non possano muoversi dai primi verso questi ultimi, ad esempio per l’apertura di una porta. Per questo motivo, la predisposizione di aree destinate alla cura di persone “infette” in locali precedentemente considerati “puliti”, così come la modifica dei parametri di funzionamento dei sistemi di trattamento aria (es. esclusione del ricircolo come suggerito da ISS), andrebbero sempre attuati tenendo in considerazione le pressioni differenziali in gioco e mettendo in atto le opportune azioni correttive.

2) Il cattivo stato igienico degli impianti di trattamento aria provoca un incremento delle polveri sottili negli ambienti indoor e aggrava il problema costituito dal fatto che tali polveri sono in grado di veicolare e amplificare la diffusione del virus.

Un recente e apprezzabilissimo studio della Società italiana di Medicina Ambientale (Sima) e delle Università di Bologna e di Bari1, rileva una correlazione positiva tra le elevate concentrazioni di polveri sottili (PM10 e PM2,5) in Pianura Padana nel mese di febbraio e l’incidenza dei casi infetti da Covid-19. Anche se lo studio per ora non ha fornito risultati certi e verificati, le molte evidenze raccolte sembrano suggerire come il particolato atmosferico agisca da “vettore”, ovvero sia in grado di trasportare molti contaminanti chimici e biologici, inclusi i virus, i quali possono rimanere nell’aria in condizioni vitali per ore, o addirittura giorni. Se tutto ciò fosse confermato, un altro dato a mio parere assumerebbe importanza e dovrebbe essere considerato: il fatto che l’inquinamento indoor è spesso superiore a quello esterno, outdoor. Infatti, nonostante si ritenga generalmente che l’inquinamento dell’aria riguardi esclusivamente l’ambiente esterno e che tale fenomeno sia drasticamente ridotto negli spazi confinati, come gli edifici, vari studi scientifici degli ultimi trent’anni evidenziano il contrario. E di questa situazione sono largamente responsabili gli impianti di trattamento aria, i quali, nonostante la presenza delle sezioni filtranti, durante il loro funzionamento, fisiologicamente, si contaminano. Nella realtà impiantistica italiana, l’accumulo di polveri e particolato nelle condotte dell’aria appare essere un fenomeno assolutamente diffuso, anche nei sistemi serventi strutture ospedaliere. In questo senso, il ruolo degli impianti dell’aria nella diffusione del Sars-CoV-2 sarebbe legato all’introduzione in ambiente indoor di elevate concentrazioni di polveri sottili, che potrebbero appunto fungere da efficiente mezzo di veicolazione del virus.



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