L’inquinamento elettromagnetico.

Pubblicato il 13 settembre 2002

Oltre che su indagini epidemiologiche, questo giudizio si fonda su un gran numero di studi in vitro e su animali da laboratorio che, nel loro complesso, hanno fornito risultati negativi. A questo proposito è opportuno sottolineare ancora come sia fondamentale riferirsi all’insieme degli studi piuttosto che a singole ricerche, che possono avere anche un notevole significato come indicazione scientifica per successivi approfondimenti, ma non hanno valore conclusivo, soprattutto se non sono state replicate indipendentemente in laboratori diversi. La difficoltà consiste essenzialmente nel disporre di un metodo analitico sensibile e riproducibile e nel distinguere gli effetti dei numerosi fattori ambientali che agiscono simultaneamente sugli organismi esposti. La diffusione pressoché universale di sorgenti elettromagnetiche comporta che un eventuale rischio, seppur minimo, potrebbe costituire un problema importante di sanità pubblica e questo giustifica le ampie ricerche in corso. Le radiazioni cui competono valori anche molto bassi di energia producono una piccola quantità di calore, ma i normali processi di termoregolazione del corpo sono in grado di rimuoverla. In questi casi, l’attenzione è rivolta ai possibili effetti non termici e la ricerca si orienta sulle alterazioni della membrana plasmatica, dell’attività enzimatica e sullo studio dei distretti in cui più attivo è lo scambio di cariche e particelle, quindi le cellule del sistema nervoso, neuro-muscolare, la barriera ematoencefalitica, l’attività cardiaca; studi specifici sono stati effettuati sulle giunzioni tra cellule, soprattutto le cellule nervose e le sinapsi. È stato dimostrato, tra l’altro, che applicando campi elettromagnetici di frequenza tra 140 MHz e 3 GHz, aumenta il trasporto degli ioni K+, Na+ e Ca++ dall’esterno della cellula al comparto intracellulare. Il calcio, che gioca un ruolo essenziale in numerosi processi metabolici, quali le traduzioni di messaggi e le comunicazioni fra cellule, ha un ruolo cruciale in molte funzioni cellulari e attraversa continuamente la membrana plasmatica.

Eventuali cambiamenti di flusso e concentrazione diventano perciò di estrema importanza. Alcuni studi hanno mostrato che è possibile modificare il trasporto di calcio a valori di SAR più bassi di 0,004 W/kg (valore a cui non si osserva aumento di temperatura). È stato segnalato che l’esposizione ai campi RF di intensità troppo bassa per produrre un riscaldamento apprezzabile altererebbe l’attività elettrica del cervello attraverso variazioni della mobilità degli ioni calcio. Questo è stato riportato anche in cellule e tessuti isolati. Gli studi di cancerogenesi animale non hanno fornito evidenze convincenti di un effetto sull’incidenza di tumori. Uno studio del 1997 riporta che topi geneticamente predisposti allo sviluppo del linfoma esposti per 18 mesi a forti ma intermittenti campi RF, del tipo associato ai telefoni cellulari digitali, presentano un aumento dell’incidenza della malattia; tale incremento non si è osservato in relazione ad altri tipi di tumore. Un anno dopo, nel 1998, Frei ha pubblicato un rapporto su 1000 topi predisposti al tumore, esposti a 2450 MHz, 0,3 W/kg, per 2 ore/giorno, 7 giorni/settimana per 18 mesi, dove nessuna differenza è stata trovata nell’incidenza del tumore o nella sopravvivenza tra esposti e gruppo di controllo; lo stesso risultato si è ottenuto aumentando il SAR a 1,0 W/kg. Pertanto sembrerebbe che l’induzione del linfoma, e dei tumori in generale, dopo esposizione cronica dei roditori (in modelli animali sperimentali) alle RF non sia un fenomeno generale. In uno studio pubblicato all’inizio del 2000, Morgan e colleghi hanno studiato tutte le cause principali di mortalità (con particolare riferimento a tumori al cervello, linfomi e leucemia) nei dipendenti della Motorota, un fabbricante di prodotti per la telecomunicazione via RF. In base alla posizione aziendale, i lavoratori sono stati divisi in gruppi aventi esposizione a RF alta, media, bassa e assente (considerata di riferimento). Nei gruppi con esposizione alta e media non è stato trovato alcun incremento dell’incidenza di tumori al cervello, linfomi o leucemie. Fra il 1999 e il 2001, sono stati condotti tre studi controllati per valutare i tumori cerebrali in utenti di telefonini: il primo da Hardel1 e coll, il secondo da Muscat, il terzo da Inskip. Nessuno degli studi ha trovato associazioni fra l’uso dei telefonini e i tumori cerebrali, e nessuno ha trovato una relazione esposizione-rischio. In generale, il lobo temporale del cervello è il più esposto a radiazione RF, ma non è stato rilevato un aumento significativo di tumori al lobo temporale opposta.

“ricetrasmettitori radio, telefonini o simili apparecchi sul lavoro per parecchie ore al giorno” era associato al melanoma intraoculare. Su 118 pazienti con melanoma intraoculare, 6 (5,1%) hanno dichiarato “probabile o certo” che erano stati esposti a telefonini sul lavoro. Secondo gli autori, questo uso professionale del telefonino è quattro volte maggiore del previsto. L’uso del telefonino fuori dal lavoro non è stato analizzato, e altri fattori di rischio (per esempio, l’esposizione a UV e il fototipo della pelle) non sono stati esaminati. Nell’unico altro studio paragonabile, Johansen ha trovato un’incidenza di melanoma e tumori oculari minore del previsto in utenti di telefonino. In base alle prove epidemiologiche disponibili ad oggi, il principale allarme per la salute pubblica viene dagli incidenti stradali imputabili all’uso dei telefonini, un effetto del comportamento piuttosto che dell’esposizione in quanto tale. Né i numerosi studi sull’esposizione occupazionale a RF né i pochi sui telefonini forniscono alcuna prova chiara di un’associazione con tumori al cervello o altre malattie.