Per produrre un chilo di carne bovina sono necessari circa 15.000 litri di acqua e per la coltivazione di una tonnellata di riso servono circa 1.500 metri cubi di acqua, come ricorda Matteo Beccatelli, chimico, ricercatore, CEO e Co-Founder di Plantvoice. Bastano questi numeri per rendersi conto di quanta acqua dolce consumiamo solo per sfamarci. Secondo la FAO (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura), il 70% del consumo idrico mondiale dell’uomo è destinato all’agricoltura.
Questo utilizzo intensivo inizia però a essere problematico, in quanto le risorse idriche si stanno riducendo a causa del cambiamento climatico e della conseguente siccità. Sempre secondo la FAO, infatti, l’agricoltura è uno dei settori più vulnerabili al cambiamento climatico: si pensi alle catastrofi naturali che colpiscono duramente il settore agricolo nei Paesi in via di sviluppo, con danni stimati a 108 miliardi di dollari all’anno. Di questi, il 34% è causato proprio dalla siccità, con un impatto economico di 36,7 miliardi di dollari all’anno; mentre il 9% è dovuto a infestazioni e parassiti, con un costo di 9 miliardi di dollari all’anno. Queste situazioni di siccità e infestazioni hanno portato alla perdita di 2.967 miliardi di chilocalorie all’anno, pari al fabbisogno annuo di 3 milioni di persone.
Viene naturale chiedersi come faremo a sfamare una popolazione mondiale che invece continua a crescere e che nel 2050 arriverà a 10 miliardi di persone. Quel che stiamo facendo, ad oggi, è aumentare la quantità di suolo destinato all’agricoltura: ogni anno 10 milioni di ettari di terre vergini vengono convertite all’attività agricole. Tuttavia questa non può essere la soluzione al problema, perché in questo modo si va a intaccare la biodiversità e l’equilibrio degli ecosistemi globali: di questo passo, entro il 2050, sarà necessaria un’ulteriore area di dimensioni paragonabili a quella del Brasile per soddisfare la crescente richiesta di cibo!
I dati sopra indicati sottolineano l’importanza di sviluppare strategie di resilienza e sostenibilità per l’agricoltura, al fine di garantire la sicurezza alimentare e mitigare gli impatti negativi sulle risorse naturali e sull’ambiente. È necessario, insomma, sfruttare in maniera più intelligente le risorse, evitando lo spreco e aumentando le rese. Lo si è sempre fatto con la chimica ma oggi il game changer è la tecnologia digitale e, in particolare, quella sensoristica.
Da un lato, le nuove tecnologie hanno già portato il settore dell’agrifood a profonde trasformazioni – anche in Italia. Secondo il 7° censimento generale dell’agricoltura italiana, nel 2020, il 15,8% delle aziende agricole attive nel nostro Paese utilizzava il computer o altre attrezzature informatiche e digitali: una quota 4 volte superiore al dato del 2010 quando la percentuale si fermava al 3,8%. Ad essere informatizzate era il 78,2% delle grandi aziende e il 44,7% delle medie, l’8,8% delle piccole. Parallelamente il fatturato delle aziende che offrono soluzioni 4.0 per l’agricoltura nel 2023 aveva raggiunto la cifra di 2,5 miliardi di euro, con un aumento del 20% rispetto all’anno precedente (Osservatorio Smart Agrifood del Polimi). E il trend è in crescita: a livello globale, McKinsey calcola che il mercato oggi abbia un valore di 21,5 miliardi di euro e possa segnare un aumento dell’8% annuo fino al 2026.
Benissimo, ma di quali tecnologie stiamo parlando? Oggi quelle che davvero possono contribuire a una reale spinta verso l’ottimizzazione dell’agricoltura sono, da un lato, l’Internet of Things (IoT) e l’intelligenza artificiale (AI) – perché permettono di raccogliere informazioni e dati aggiornati sulle colture, di sincronizzare la produzione e la vendita, di rendere più efficiente la gestione della supply chain – e dall’altro la tecnologia sensoristica. Quest’ultima, se combinata con i sistemi di AI, permette di monitorare costantemente e in tempo reale i parametri vitali delle colture al fine di identificare eventuali situazioni di stress e correre ai ripari prima che si verifichino danni irreversibili causati da infestazioni e parassiti, o ancora di monitorare quanta acqua serve a una coltura al fine di evitare gli sprechi.
Si parte dalle tecnologie sensoristiche indirette come i sensori meteorologici, di suolo, di irraggiamento e di temperatura, immagini satellitari, droni… tutte tecnologie in grado di raccogliere dati ambientali che servono a capire ad esempio dal suolo o dall’umidità dell’aria se una data coltura sta bene oppure no e quindi di agire di conseguenza, misurando e ottimizzando l’utilizzo di pesticidi e acqua a seconda della situazione. Ne sono un buon esempio X-Farm, Finapp ed Elaisian.
Negli ultimi tempi però la tecnologia sensoristica ha fatto grandi passi e oggi è persino possibile fare un’analisi diretta dello stato di salute di una pianta: vale a dire, misurarne direttamente i parametri vitali attraverso la linfa. Ci sono tecnologie che possono misurare la quantità di linfa che fluisce in tempo reale nel fusto, ossia la velocità della linfa (o flusso), ma in modo costoso ed invasivo utilizzando elettrodi di metallo. Ci sono già alcune società che applicano queste tecnologie in modo efficiente, ne sono un ottimo esempio l’australiana Hydroterra e l’americana Dynamax. Anche Plantvoice ha studiato, sperimentato e applicato una tecnologia direttamente integrata all’interno della pianta – con l’ausilio di istituzioni come l’Università di Parma, l’Università di Verona, l’Università di Milano, Fondazione Bruno Kessler ed Eurac Research – ed è riuscita ad andare ancora oltre le applicazioni tradizionali grazie all’ideazione di un sensore biocompatibile non invasivo grande come uno stuzzicadenti che oltre a vedere il flusso di linfa in tempo reale, riesce anche a determinare la composizione della linfa. Il sensore così sviluppato funge da “sentinella”: per un dato appezzamento di terra si riesce a valutare lo stato di salute della coltivazione e quindi ottenere una specie di elettrocardiogramma della pianta, generando dei dati che, una volta rielaborati con l’ausilio dell’AI, sono in grado di indicare con chiarezza lo stress delle colture, come lo stress dovuto all’irrigazione o a fitopatie. In tal caso l’analisi dello stress può essere molto utile per prevenire l’insorgenza di malattie, quindi riducendo l’uso di fitofarmaci, oppure per dosare al meglio l’acqua ed i fertilizzanti. Ma lo stress delle coltivazioni in taluni casi, come nella vite e nell’olivo, se opportunamente dosato, può essere estremamente utile per aumentare la qualità, in particolare organolettica, del raccolto.
In generale, le tecnologie sensoristiche in agricoltura, se ben applicate, consentono alle aziende agricole di migliorare la produttività e la qualità delle coltivazioni, unitamente ad un risparmio economico diretto in termini di riduzione dell’irrigazione, di fertilizzanti e di fitofarmaci. Si pensi a quello che è successo in Trentino Alto Adige, ed in varie zone alpine ed appenniniche, a fine aprile. Per evitare i danni dovuti a temperature invernali i contadini hanno accesso migliaia di piccoli fuochi per far salire il termometro sopra lo zero (era sceso fino a -2 gradi). Una soluzione preventiva, costosa ma, forse, non effettivamente necessaria. Se gli agricoltori avessero avuto modo di verificare con tecnologie sensoristiche dirette l’effettivo stress delle loro colture avrebbero potuto intervenire solo se strettamente necessario e magari in zone specifiche riducendo così i costi.
E poi parallelamente alla diffusione di queste tecnologie stanno nascendo start-up – ESGMax, co-fondata dallo studio Startup Bakery insieme al CEO Massimo Ferri ne è un esempio – che semplificano la raccolta e l’analisi dei dati su tutta la filiera di aziende agricole permettendo a chi applica tecnologie in agricoltura di analizzare in maniera automatizzata tutti i dati rilevati dai sensori anche ai fini della redazione di report di sostenibilità.
L’applicazione di tecnologie direttamente integrate all’interno delle piante è anche un modo per abilitare in maniera concreta la sostenibilità, rappresentando, almeno in parte, una risposta al problema enorme che l’agricoltura sempre più si troverà ad affrontare. Alcuni attori della filiera lo hanno già capito: Consorzio Innovazione Frutta del Trentino, Martino Rossi, Salvi Vivai e Sant’Orsola ne fanno già un uso intelligente per ottimizzare le proprie coltivazioni. È fondamentale quindi continuare a studiare e sviluppare tecnologie sempre meno invasive e costose e sempre più sostenibili e facili da integrare nei processi aziendali. È la strada giusta per poter sostenere un’evoluzione dell’agricoltura che non è più rimandabile.
Si parla spesso della necessità di normare eticamente l’A.I. ma dovremmo invece parlare sempre di più degli usi virtuosi che se ne può fare: uno è senz’altro ottimizzare l’agricoltura. I pesticidi hanno impatti su ambiente e salute umana, i fertilizzanti hanno effetti in termini di impoverimento del territorio ma è ormai comprovato che certe tecnologie, con il supporto dell’AI, rendono possibile ridurne l’utilizzo. Trovare degli strumenti che non invadono o modificano la natura ma cercano solo di gestire al meglio tutte le risorse è la strada maestra, forse l’unica che abbiamo per salvare il nostro pianeta.