Uno sviluppo insostenibile
Inghilterra, Francia e Germania hanno ottenuto un primo risultato con l’adesione della Russia e della Cina al protocollo di Kyoto. Probabilmente hanno fatto ricorso a un po’ di enfasi ecologista per far capire che le grandi potenze europee sono in testa all’Unione Europea (Prodi concorde) per una politica di sviluppo non solo verbalmente sostenibile. E questa politica richiede sostanziali conversioni, prima quella nel campo dell’energia. Non a caso la Germania è in testa per la produzione di elettricità dal sole e dal vento, con cui mira a coprire il 20% del suo fabbisogno energetico, ed è anche coinvolta nelle ricerche per la produzione di idrogeno su scala industriale. Secondo La Stampa del 6 settembre scorso a fronte di questo risultato rimangono questioni fondamentali non affrontate; prima tra queste quella dell’inquinamento atmosferico dovuto alle combustioni di petrolio e carbone. Come previsto a Johannesburg se n’è parlato poco, perché il petrolio mette in gioco alleanze, rapporti di potere economico, interessi enormi. Due terzi delle riserve note ed economicamente sfruttabili si trovano tra Iran, Iraq, Emirati Arabi, Arabia Saudita, e questo dice molto. Il 35% della produzione mondiale viene dal Medio Oriente, ma non sono ben note le riserve della Russia e della Cina. Gli Stati Uniti contano molto su quelle dell’Alaska e del Golfo del Messico. Insomma il petrolio non mancherà, ma, guerre locali a parte, è difficile immaginare fino a che punto potrebbe arrivare la capacità di sopportazione del pianeta se entro la metà del secolo gli Stati Uniti continuassero a bruciare petrolio senza limiti imitati dalla Cina e dai Paesi più rapidamente sviluppati. Difficile immaginarlo se l’economia fondata sui consumi crescenti si diffondesse nella maggioranza dei previsti 8 miliardi di abitanti della terra. Ma troppi capi di governo hanno orizzonti temporali limitati, spesso la data delle prossime elezioni. E noi, stretti tra paure apocalittiche (l’enorme nube nera), siccità e piogge disastrose, desiderio di non cambiare usi e consumi, finiamo con il pensare che il futuro della terra riguarda i nostri figli, nipoti e nipotini.
L’ambiente: un affare per tutti
Le grandi multinazionali non si erano mai impegnate tanto per avere visibilità ad una conferenza Onu come a quello di Johannesburg. Hanno creato un network – il basd(Bussines Action for Sustainable Developedment) – con il compito di portare il punto di vista delle grandi imprese al tavolo dei negoziati. Come riporta la Repubblica del 29 agosto scorso, la partecipazione al summit delle multinazionali non è stata ben accolta dalle organizzazioni non governative che le imprese come lupi al tavolo delle trattative per decidere come salvare gli agnelli. L’Onu ha d’altra parte evidenziato che aver coinvolto il settore privato è un merito perché gli sforzi potranno essere comuni sull’obiettivo. Grazie alla partnership con i privati verranno immessi circa 2, 9 miliardi di Euro in più nelle vene dei progetti per lo sviluppo sostenibile. Il vero nodo su cui è avvenuto lo scontro è stato il come queste partnership sarebbero state regolate: la risposta è stata trovata nella proposta delle ong, fatta propria da Sudafrica Brasile e Indonesia, e contenuta nel documento che parla di principi intergovernativi per la promozione delle partnership. Anche l’Italia ha fatto la sua parte presentando a Johannesburg due progetti di collaborazione tra il governo e le aziende private nel Mediterraneo e in Cina. Le cifre stanziate dallo Stato ammontano a 13 milioni di Euro e 40 milioni di Euro che verranno usati come garanzie per l’investimento iniziale compiuto da società che forniranno impianti servizi e consulenza per produrre energia pulita ad aziende e locali. Tra i gruppi convolti, Pirelli, Fiat, Enel Greenpower. Si tratta di una maggior sensibilità delle imprese alla sostenibilità ambientale o, come sostengono gli ecologisti più duri, soltanto di una “greenwashing”, vale dire una riverniciata di verde?
Emergenza acqua
La crisi idrica minaccia di estendersi a Marche, Toscana e Lazio e pure al nord il 10% della popolazione ha poca acqua. Una percentuale di “assetati” che nel sud e nelle isole supera il 70%. Gli acquedotti obsoleti penalizzano persino la provincia di Rieti, uno dei più grandi serbatoi idrici d’Europa, dove i sindaci hanno detto no all’uso dell’acqua per usi non domestici. Eppure la penisola non è affatto povera di risorse idriche. Un rapporto di Legambiente sottolinea come la nostra dote di acqua sia di ben 40 miliardi di metri cubi l’anno. Un patrimonio che potrebbe soddisfare ampiamente gli usi civili, industriali e agricoli. Negli ultimi anni piove sempre meno (in un decennio la disponibilità d’acqua al Sud si è dimezzata per la riduzione del 20% delle piogge) però all’origine del problema c’è un sistema idrico del tutto inadeguato, come sottolinea La Stampa del 14 luglio scorso. In molte zone l’assenza di un piano integrato per l’uso delle risorse idriche e l’esclusione da qualsiasi collegamento con gli invasi stanno determinando il collasso di migliaia di aziende agricole. Nel mirino ci sono gli allacci abusivi di “ladri d’acqua” e la progressiva salinizzazione delle falde. La perdita di un miliardo di metri cubi d’acqua è diventato un problema nazionale: un rubinetto su tre a secco, rifornimenti a giorni alterni e con il contagocce, una rete idrica vecchia e inefficiente. Uno scenario da “stato di calamità”, come sostiene il ministro delle risorse agricole che intende destinare 500 milioni di euro agli interventi di emergenza”.
Mobilità: ma quanto ci costi
I dati sul bilancio ambientale della mobilità sono allarmanti: oltre 15 mila persone decedute per i gas di scarico, 122 milioni di tonnellate di anidride carbonica e 1000 di piombo immesse in atmosfera. Il tutto imputabile nella quasi totalità al trasporto su strada. Ecco in estrema sintesi, i pesanti danni ambientali e sociali che il sistema ha provocato nel 1999 in Italia. Danni che ricadono sull’intera collettività e che tradotti in moneta corrispondono a oltre 100 milioni e 400 mila euro (194 miliardi di lire). Per ogni chilometro percorso, i costi della produzione, dell’esercizio e smaltimento dell’autovettura privata sono doppi di quelli dell’aereo tre volte maggiori di quelli dell’autobus e del treno. E sul totale dei chilometri percorsi dai passeggeri in un anno, quasi l’80% è stato percorso su automobili. La ricerca offre molti spunti di riflessione. Per quanto riguarda le emissioni inquinanti dovute al trasporto su strada nel 1999 si evidenzia che in ambito urbano oltre il 50% delle emissioni di polveri sottili (PM 10) è causato dalla distribuzione delle merci, mentre circa il 40% delle emissioni di composti organici volatili, tra cui benzene, notoriamente cancerogeno, è prodotto dai ciclomotori. Nel momento in cui le autorità di governo si apprestano a emanare misure per fronteggiare l’emergenza inquinamento atmosferico nelle città, ricerche di questo tipo si rivelano essenziali per valutare la portata di possibili diverse soluzioni. Da questo rapporto emerge che il vero problema resta l’aumento dei mezzi privati. L’indicazione che ne consegue è che deve essere il pubblico a rispondere in modo adeguato alla domanda di mobilità dei cittadini: i centri urbani devono essere percorsi soprattutto dai mezzi pubblici e da pedoni; il treno deve tornare ad essere il mezzo preferito per spostarsi sulle medie e lunghe distanze. Per quanto riguarda le merci, infine, risultano improrogabili un consistente riequilibrio modale e un drastico intervento di razionalizzazione della logistica.