Fino a quando e come si potrà sostenere il sistema alimentare mondiale? Il quadro già oggi è allarmante: 800 milioni di malnutriti e 1,6 miliardi di obesi; il 40% del grano prodotto nel mondo che diventa carburante e cibo per animali; 1,2 miliardi di tonnellate di alimenti semplicemente persi; la superficie coltivata sul pianeta destinata a ridursi in circa trent’anni del 20% nelle previsioni peggiori a causa della desertificazione. Contemporaneamente la popolazione mondiale, e quindi le bocche da sfamare, crescerà dagli attuali 7 a 10 miliardi di persone entro il 2050, con una velocità senza precedenti nella storia dell’umanità. Come si potrà governare questi megatrend evitando carestie e al tempo stesso uno sfruttamento insostenibile delle risorse del pianeta e per l’equilibrio dell’ecosistema globale? È questo il tema cruciale affrontato recentemente a Fiera Milano nell’ambito di Ipack-Ima – mostra di livello mondiale per le tecnologie di processo e packaging – nella conferenza Designing a resilient future: food, technology and sustainable development.
La conferenza, coordinata da Claudio Peri, professore emerito di tecnologie alimentari all’Università Statale di Milano, ha visto contributi autorevolissimi, a partire da quello di Greg Drescher, vice-presidente del Cia, il Culinary Institute of America, secondo cui occorre ripartire dalla cucina di tutti i giorni, riducendo senza eliminarli i consumi di proteine animali nella regola alimentare quotidiana. Quali benefici? Riduzione delle malattie croniche e delle emissioni climalteranti legate alla filiera dell’allevamento intensivo. Il Cia, dall’inizio delle sue attività, ha immesso 50.000 nuovi cuochi provenienti da 30 differenti Paesi del mondo, capaci di orientare scelte e gusti a tavola, dal ristorante alla mensa, dai piccoli fast food ai templi della gastronomia, fino alle navi da crociera.
Sbilanciarsi verso un’abitudine alimentare più vegetale e meno animale è operazione riservata a cuochi professionisti? Non è detto: basta invertire i rapporti di un piatto: la carne diventa non il piatto forte ma il contorno di verdure e carboidrati, e il gioco è fatto: gusto, ambiente e corretta nutrizione vanno d’accordo.
A seguire questo percorso è anche Michiel Bakker, direttore dei servizi di ristorazione delle sedi Google nel mondo. Trattandosi di Google sembrerebbe scontato l’elenco delle soluzioni: usare le mappe per conoscere le aree sottratte all’agricoltura, elaborare i dati climatici per ottimizzare il lavoro nei campi… Ma la soluzione non è nella tecnologia, o almeno non solo: Google si fa aiutare proprio dal Cia per realizzare un modello alimentare con base vegetale per i suoi dipendenti che coinvolge anche per modificare, correggere e testare piatti salutistici, per poi discuterne con i fornitori.
Anche Paolo Barilla, vice presidente del gruppo, è convinto che diete basate sul modello proposto da Drescher e Bakker possano contribuire a ridurre l’impatto ambientale: a parità di apporto nutrizionale, colazioni, pranzi, cene e merende a base ‘vegetale’ riducono del 65% le emissioni di gas climalteranti. Nel frattempo, l’industria può e deve controllare e indirizzare le proprie fonti di approvvigionamento spingendo i coltivatori a tornare alle tradizionali pratiche: la rotazione delle colture, raccomandata dal programma ‘Sustainable Durum Wheat Project’ di Barilla, ha permesso una riduzione del 36% delle emissioni di CO2 e di una riduzione dei costi del 10% per minor uso di fertilizzanti e pesticidi.
Migliorare il lavoro sui campi è una priorità condivisa anche da Philippe Scholtès, direttore generale della divisione di cooperazione tecnologica di Unido, l’organizzazione dell’Onu che si occupa dello sviluppo industriale: il valore aggiunto per addetto del settore agricolo è di 336 dollari nei Paesi in via di sviluppo, ma sale a 1.060 nei Paesi industrializzati e schizza a 18.497 in realtà quali Giappone e Israele. Ne consegue che esistono ampi margini di miglioramento. Ma poi bisogna intervenire nella parte restante del viaggio degli alimenti, se è vero che fatta 100 la produzione sul campo, solo poco più del 60% arriva nello stomaco: almeno la metà delle perdite sono dovute a cattivo confezionamento, immagazzinaggio scorretto, problemi di gestione nei supermercati.
Insomma, occorre che tutti facciano la loro parte: agricoltori, industria, distribuzione, consumatori ed anche i fornitori di tecnologie di trasformazione, confezionamento e conservazione degli alimenti, il mondo appunto di Ipack-Ima. Da questo comparto innovativo che vale oltre 40 miliardi di euro in Italia parte un messaggio forte alle filiere agroalimentari: “Ci aspetta un cambiamento drammatico”, avverte il professor Peri. “Una rivoluzione del sistema non è una scelta, ma una strada obbligata: cooperare permetterà di raggiungere l’equilibrio tanto atteso rapidamente, a costi sostenibili, con benefici per tutti”.