Vi ricordate quando Ulisse deve purificare la stanza in cui sono stati giustiziati gli arroganti pretendenti di sua moglie? Ordina alla fedele Euriclèa di bruciare dello zolfo (theio); mille anni prima di Cristo erano quindi note le proprietà disinfettanti dell’anidride solforosa; lo zolfo necessario era estratto dalle zone vulcaniche; i Romani addirittura lo estraevano industrialmente dalle miniere siciliane utilizzando come mano d’opera gli schiavi o i criminali condannati ai gravosi lavori, “ad metalla”, per cui molti morivano asfissiati dai gas solforosi che si liberavano nei giacimenti sotterranei. I giacimenti siciliani sono stati la principale fonte di zolfo nell’antichità e nel Medioevo fino al Novecento.
Lo zolfo si presenta in masse di colore giallo che fondono a circa 115 °C; ha peso atomico 32 e si trova in natura in tre diversi stati di ossidazione corrispondenti a SH2, SO2, SO3 e ai relativi derivati solfuri, solfiti e solfati. Dopo l’arrivo in Europa della formula cinese della polvere da sparo, in cui lo zolfo entra come ingrediente insieme al carbone e al salnitro, lo zolfo divenne un materiale strategico, ma la grande era moderna dello zolfo comincia alla fine del 1700 con la scoperta che una miscela di zolfo, acido nitrico e acqua si trasforma nel potente acido solforico. Con l’aumento della produzione dell’acido solforico, da pochi chili per volta secondo le formule degli alchimisti, a quintali e tonnellate per volta, è aumentata la richiesta dello zolfo e solo in Sicilia c’erano dei rilevanti giacimenti sotterranei di zolfo. Il mercato “tirava”; i clienti francesi e inglesi erano disposti a pagare bene lo zolfo e i grandi baroni del latifondo agrario si trasformarono in imprenditori minerari.
In Sicilia lo zolfo si trova in giacimenti frammisto a depositi di solfato di calcio e di calcare e veniva recuperato con un rudimentale sistema. Venivano fatti dei mucchi di minerale, le “calcarelle”, coperti di pietre e muniti di un rudimentale camino; si dava fuoco allo zolfo che reagiva con l’ossigeno dell’aria trasformandosi in anidride solforosa: il calore di combustione che si liberava faceva fondere una parte dello zolfo che colava allo stato liquido alla base delle calcarelle e veniva recuperato. Solo la metà dello zolfo presente nel minerale greggio veniva recuperato e venduto; l’altra metà finiva nell’aria sotto forma di un gas inquinante che avvelenava i polmoni dei lavoratori, degli abitanti dei paesi vicini e distruggeva le colture.
Nella seconda metà dell’Ottocento delle miniere siciliane cominciarono ad occuparsi degli imprenditori un po’ più attenti: non certo ai problemi di inquinamento, ma allo spreco di materia prima. Per ottenere più zolfo dal minerale furono inventati dei processi – prima i “calcaroni” poi, alla fine del 1800, i forni Gill – nei quali veniva recuperata una parte del calore di combustione dello zolfo e veniva ridotta la fuga dell’anidride solforosa nell’aria. Queste innovazioni tecniche arrivarono però tardi: alla fine dell’Ottocento furono scoperti in America dei giacimenti di zolfo a poche decine di metri di profondità nel sottosuolo della Louisiana.
Un ingegnere, Herman Frasch (1852-1914), inventò un sistema per sollevare in superficie lo zolfo allo stato fuso, molto puro, e da allora cominciò il declino dell’industria mineraria siciliana. Ma anche l’estrazione dello zolfo nativo col metodo Frasch è finita; oggi lo zolfo si ottiene quasi esclusivamente per ossidazione dell’idrogeno solforato presente nel metano, dai composti solforati che si formano nella raffinazione del petrolio e dalla anidride solforosa che si forma durante l’arrostimento delle piriti di ferro e di altri solfuri metallici con l’astuto sistema inventato nel 1883 dal chimico Alexandre Chance (1844-1917): l’anidride solforosa è ridotta a idrogeno solforato che viene fatto reagire con altra anidride solforosa con formazione di zolfo puro.
Giorgio Nebbia