L’immagine di un “serpente che si morde la coda” rappresenterebbe al meglio quel circolo vizioso che collega i cambiamenti climatici con il cibo mettendo a rischio la sicurezza alimentare globale: da un lato la prima causa del cambiamento climatico è il sistema alimentare, visto che l’agricoltura globale contribuisce con il 35% delle emissioni di anidride carbonica, metano e protossido di azoto in cui la zootecnia, da sola, contribuisce per il 18% a tutte le emissioni di gas serra. Ma l’agricoltura stessa (e quindi la produzione di cibo) è proprio il settore più esposto ai rischi dei cambiamenti climatici indotti dai gas serra. Secondo l’International Food Policy Research Institute (Ifpri) per il solo effetto del cambiamento climatico sulle produzioni, il numero globale di persone che soffre la fame potrebbe aumentare del 20% entro il 2050, con incrementi particolarmente gravi (65%) in Africa Subsahariana. La lotta contro la fame tornerà indietro di decenni a causa dei cambiamenti climatici se non si interviene urgentemente. Rispetto a un mondo senza cambiamenti climatici, nel 2050 potrebbero esserci 25 milioni in più di bambini malnutriti di età inferiore ai 5 anni, ovvero l’equivalente di tutti i bambini di quell’età di Stati Uniti e Canada (come indica Oxfam). Il Quinto e ultimo Rapporto dell’Ipcc mostra che l’impatto del cambiamento su queste problematiche legate alla sicurezza alimentare, alla nutrizione, ai mezzi di sussistenza sarà peggiore di quanto precedentemente stimato e le conseguenze saranno avvertite molto prima, cioè già nei prossimi 20-30 anni.
Agricoltura dunque come vittima del cambiamento climatico e allo stesso tempo causa scatenante: è la sintesi del nuovo Report Wwf “Il clima nel piatto” diffuso alla vigilia della Giornata Mondiale dell’Alimentazione celebrata in tutto il mondo il 16 ottobre. E proprio cibo e clima sono stati al centro del “Wwf Day” in Expo 2015: il 18 ottobre si è parlato di buone pratiche e consigli per ridurre l’impatto globale sulla biodiversità dovuto alla produzione e al consumo di cibo proveniente dalla terra e dal mare. La giornata è stata dedicata all’associazione in qualità di Civil Society Participant di Expo Milano 2015.
“La fame che ancora oggi persiste nel mondo non è dovuta al fatto che non si produce abbastanza cibo, ma alla mancanza di accesso al cibo. Produrre cibo per tutti è una condizione necessaria, ma non sufficiente per la sicurezza alimentare in un mondo che oggi ha già oltre 7,3 miliardi di abitanti e che nel 2050 ne avrà, secondo le ultime proiezioni Onu, 9,7 miliardi”, ha dichiarato Gianfranco Bologna, direttore scientifico del Wwf Italia. “L’impatto del cambiamento climatico sulla produzione alimentare e gli effetti di pratiche agricole dannose per il clima sono già una realtà: l’obiettivo è quello di creare sistemi alimentari fortemente integrati con la vitalità dei sistemi naturali e della biodiversità (il nostro capitale naturale costituito da suolo, acqua, foreste e specie ecc.), che producano con il minor danno per l’ambiente e il clima”.
Nel Report si evidenziano le responsabilità dei consumi legati al cibo: il consumo di carne pro capite, infatti, è in continuo aumento, dal 1995 è incrementato globalmente del 15% come ricorda il Worldwatch Institute. È la Cina il Paese leader nel consumo di carne a livello mondiale (nel 2012 ha raggiunto un consumo annuale di 71 milioni di tonnellate, più del doppio di quello degli Stati Uniti). Anche la dieta europea è notevolmente cambiata nel corso degli ultimi 50 anni e molti di questi cambiamenti sono andati nella direzione di una maggiore assunzione di carne. Secondo la Fao, in Italia il consumo di carne è aumentato di oltre il 190% dal 1961 (31 kg pro capite l’anno) al 2011, con 90 kg pro capite l’anno. Numeri che fanno riflettere dato che oggi, nonostante si produca nel mondo un quantitativo di cibo più che sufficiente per tutti, soffrono ancora la fame ben 795 milioni di persone, quasi una su nove di cui oltre la metà in Asia.
Globale, nazionale, individuale: il Wwf propone delle soluzioni, come per esempio passare dai sistemi di produzione alimentare dominanti al livello planetario, ad alto consumo di risorse naturali (come, ad esempio, il terreno fertile), all’agroecologia (con minimo utilizzo di fertilizzanti e pesticidi e input – come il letame e i concimi organici – prodotti localmente) e alla pesca sostenibile. Le politiche devono incentivare anche fiscalmente queste pratiche e la contabilità ambientale deve entrare formalmente nelle politiche economiche e nella prassi delle imprese. Sono necessarie anche azioni di protezione e rigenerazione del suolo e degli equilibri idrici. Queste pratiche aumentano nel lungo termine sia la produttività sia la creazione di posti di lavoro limitando al contempo le emissioni di gas serra. Ridurre infine l’utilizzo dei sistemi forestali in modo che questi possano fornire ‘servizi’ naturali indispensabili (sequestro di carbonio dal suolo, acqua e aria pulita, controllo naturale degli infestanti, impollinazione, etc).
Anche il modello di gestione della pesca deve cambiare: l’85% degli stock ittici mondiali è pienamente sfruttato o sovrasfruttato o esaurito. 160 milioni di tonnellate di pescato, di cui il 44% da acquacoltura, sono volumi non più sostenibili. Occorre incoraggiare i pescatori, i fornitori, i compratori e i venditori a impegnarsi per la certificazione sostenibile del pescato e la tracciabilità della filiera. Per l’Italia il Wwf ha elencato 7 soluzioni nazionali a partire dalla promozione dell’agricoltura biologica ‘amica del clima’ con un obiettivo al 2020 di almeno il 20% della Superficie Agricola Utilizzata (Sau). Promozione di aziende agricole multifunzionali, zootecnia estensiva, riduzione dei consumi di carne e latticini nelle diete con campagne di comunicazione, etichettatura con indicatore di impatto ambientale.
Il Wwf ha stilato anche un “Decalogo per un’alimentazione salvaclima” che parte dall’acquisto di prodotti locali alla riduzione degli sprechi.
“È necessario un approccio alimentare più sostenibile, capace di ridurre significativamente gli impatti sui sistemi naturali e la biodiversità e di integrare in modo equilibrato le diverse componenti dell’alimentazione, come nel caso della dieta mediterranea, in modo da rispondere anche ad esigenze di benessere fisico e di salute”, ha dichiarato Eva Alessi, responsabile sostenibilità del Wwf Italia. “È necessario agire per una drastica riduzione dei consumi di prodotti animali, scegliendo una dieta ‘amica del clima’ che viene indicata nel nostro Rapporto”.
I cambiamenti climatici rischiano di divenire un fattore moltiplicatore della fame e dell’insicurezza alimentare a livello globale agendo su tutte e 4 le dimensioni caratteristiche del sistema alimentare: la disponibilità, l’accessibilità, l’utilizzo del cibo e la stabilità. Una combinazione di fattori inciderà sempre di più sulla produzione globale di cibo: la crescente frequenza e intensità dei fenomeni meteorologici estremi, la crescente scarsità idrica, il peggioramento delle condizioni igienico-sanitarie di base e la riduzione delle rese e delle produzioni in regioni vulnerabili. Oltre agli impatti sulle produzioni agricole, analogo destino subirà l’approvvigionamento di cibo dagli oceani. Il pescato di alcune aree marine dei tropici calerà del 40%, potendo giungere persino ad un 60%, con gravi ripercussioni sulla sussistenza delle popolazioni che basano la propria alimentazione sulle fonti proteiche provenienti dagli oceani come ricorda la Fao. In mare, per esempio, ci sono molti esempi di come i cambiamenti climatici possano accelerare dinamiche già in atto: ad esempio la pesca dell’acciuga peruviana, una delle specie più pescate al mondo. Dagli anni ‘50 in Perù questa specie sostiene una fiorente industria legata alla produzione di farina di pesce. Le catture annuali, cresciute in maniera esponenziale per 20 anni, sono poi crollate per l’effetto combinato del sovrasfruttamento e del cambiamento delle caratteristiche delle acque, dovuto al fenomeno climatico. Questo ha avuto pesanti ripercussioni sull’economia del Perù. Nell’ultimo rapporto dell’Ipcc, nel secondo volume sugli impatti, adattamento e vulnerabilità, viene dedicato un intero capitolo (il settimo) agli effetti sulle produzioni alimentari e si afferma che si può ritenere con “elevata confidenza” che le conseguenze dei cambiamenti climatici sulle colture e sulla produzione alimentare sono già evidenti in diverse regioni del mondo. I cambiamenti climatici, indica il rapporto, causeranno cali delle rese medie globali dei raccolti agricoli del 2% a fronte di una domanda di cibo che invece crescerà del 14% ogni decennio. L’agricoltura e la produzione di cibo ai tropici risentiranno fortemente anche di modesti livelli di innalzamento della temperatura e questa riduzione della produttività cadrà ancora una volta in quelle regioni già afflitte dal problema della fame.
Il surriscaldamento globale favorisce anche la diffusione di patogeni trasmessi da acqua o alimenti: le infezioni da Salmonella aumentano del 5-10% per ogni grado di aumento della temperatura. Le emissioni connesse alle attività agricole, pari a circa il 35% del totale, sono dovute principalmente alle emissioni di metano (CH4) e protossido di azoto (N2O) dai suoli agricoli (in particolare per le coltivazioni di riso) e dalle emissioni di CH4 dagli allevamenti.
Sul versante della stabilità, il cambiamenti climatici potrebbero far lievitare il prezzo di mais, frumento e riso del 120-180% come ricorda anche Oxfam. Ad avvalorare la tesi, negli ultimi anni ci sono stati tre picchi dei prezzi degli alimenti a livello globale: nel 2008, nel 2010 e nel 2012. Tutti e tre sono strettamente associati con shock sul versante dell’offerta, derivanti in parte dalle condizioni climatiche estreme. Si ritiene che milioni di persone migreranno da zone sempre più aride a zone più fertili, come indicato anche nel rapporto Wwf “Migranti e cambiamenti climatici”.
Nonostante milioni di persone soffrano la fame, ogni anno 1,3 miliardi di tonnellate di cibo viene prodotto ma non mangiato. Enorme anche lo spreco d’acqua utilizzata nella produzione di cibo, pari al flusso del fiume Volga; l’utilizzo di terreno equivale a 1,4 miliardi di ettari, quasi il 30% della superficie agricola mondiale, ed è responsabile della produzione di 3,3 miliardi di tonnellate di gas serra come ricorda la Fao. Oltre all’impatto ambientale, lo spreco ha conseguenze economiche dirette quantificabili in 750 miliardi di dollari l’anno. Gli sprechi, secondo la Fao, avvengono per il 54% “a monte”, in fase di produzione, raccolto e immagazzinaggio, per il 46% avvengono invece “a valle”, nelle fasi di trasformazione, distribuzione e consumo. Combattere gli sprechi alimentari consentirebbe sia di distribuire meglio le risorse sia di arginare i cambiamenti climatici, ponendo un freno alle emissioni di gas serra.
Imputati principali per le emissioni di gas serra dalla produzione alimentare sono la deforestazione tropicale che cerca spazio per le coltivazioni, il metano prodotto dagli allevamenti di bovini e le risaie e il protossido di azoto prodotto in terreni eccessivamente fertilizzati. Con l’incremento della domanda alimentare dovuto alla crescita della popolazione (previsti oltre 2 miliardi di abitanti in più entro il 2050), lo sviluppo dei Paesi di nuova industrializzazione (in primis Cina, India) e l’espansione delle coltivazioni per ottenerne biocarburanti, è prevista un’ulteriore pressione sui sistemi naturali. Se escludiamo Groenlandia e Antartide, attualmente coltiviamo il 38% delle terre emerse (60 volte quella occupata da strade ed edifici). L’agricoltura ha già distrutto o trasformato radicalmente il 70% dei pascoli, il 50% delle savane, il 45% delle foreste decidue temperate e il 25% delle foreste tropicali. Dall’ultima era glaciale, nessun altro fattore sembra aver avuto un impatto tanto distruttivo sugli ecosistemi. La produzione di cibo influisce sulla CO2 atmosferica sia indirettamente per via dell’uso di combustibili fossili per le attività agricole, il trasporto o la refrigerazione degli alimenti, sia tramite la deforestazione spesso indotta dalle espansioni delle coltivazioni. Pesante il contributo della zootecnia, soprattutto bovina: alla produzione di carne e derivati è imputato quasi un quinto delle emissioni globali di gas serra. Basti pensare che una singola mucca può produrre, a causa della popolazione microbica presente nel rumine, dai 100 ai 500 litri di metano al giorno. Il metano è oltre 20 volte più potente dell’anidride carbonica come determinante dell’effetto serra. Produzione di mangimi e nuovi pascoli hanno impatti gravissimi sulla deforestazione (in America Latina il 70% della foresta amazzonica è stata trasformata in pascoli).