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n.5 marzo 2012
EDITORIALE
C
ome ogni anno dal 1992, anche quest’anno il 22 marzo si
celebra la giornata mondiale dell’acqua, ricorrenza istituita dalle
Nazioni Unite per sensibilizzare l’opinione pubblica e i Governi
nei confronti della disponibilità e dell’uso sostenibile delle risorse
idriche. Fin dalla sua istituzione, la giornata si sviluppa intorno
a un tema riconducibile a uno slogan; quello di quest’anno è “Il
mondo ha sete perché noi abbiamo fame” (The World is Thirsty
Because we are Hungry), ponendo l’accento quindi sull’enorme
quantità di risorse idriche che vengono destinate, in maniera
spesso irrazionale, alle produzioni agricole e zootecniche, quantità
destinate ad aumentare contestualmente all’incremento della
popolazione mondiale che si prevede passi dai 7 miliardi di abitanti
di oggi agli 8 miliardi nel 2024.
Stime a livello mondiale indicano che sei Stati (USA, Russia,
Canada, Brasile, Cina, India) controllano più del 40% delle risorse
idriche globali; l’Asia, che ospita il 60% della popolazione mondiale,
dispone solo del 36% delle risorse d’acqua. Medio Oriente e Nord
Africa hanno una disponibilità di risorse idriche rinnovabili pari a un
decimo di quelle del Nord America.
L’autosufficienza alimentare, che soddisfa la domanda interna
di cibo attraverso la produzione nazionale, può essere raggiunta
solo in quelle nazioni in cui la disponibilità idrica è elevata e può,
nonostante l’aumento di domanda per uso urbano e industriale
che si è verificato negli ultimi decenni, essere in larga parte
destinata all’agricoltura. In molti Paesi la carenza idrica, o la
decisione di investire la risorsa verso settori più remunerativi, ha
fatto sì che fosse più conveniente non destinare all’uso agricolo
enormi quantitativi di acqua e importare i prodotti necessari
per l’alimentazione, destinando a tale scopo quanto ottenuto
dall’esportazione di merci più pregiate. Ogni prodotto immesso sul
mercato è caratterizzato infatti da un proprio contenuto di acqua
virtuale, dato dalla somma del suo contenuto reale e da quello
necessario per rendere tale prodotto disponibile al consumo,
(dalla produzione e reperimento delle materie prime, alla loro
trasformazione, all’imballaggio, al trasporto). Così un chilo di carne
bovina ha un contenuto di acqua virtuale pari a circa 13.500 L,
quello di carne suina 4.600 L, un chilo di grano e uno di patate
rispettivamente 1.160 e 105 L. Ma lo stesso contenuto di acqua
virtuale può essere stimato per prodotti di origine industriale: così
per una T-shirt di cotone e per un paio di scarpe, si ha un contenuto
di acqua virtuale pari rispettivamente a 4.100 e 8.000 L. Un foglio
di carta A4, che si utilizza con estrema disinvoltura per stampare
documenti che potrebbero essere letti sul video del PC, ha un
contenuto di acqua virtuale pari a 10 L!
Importare o esportare merci e prodotti, sia agricoli che industriali,
equivale quindi a importare o esportare acqua in forma solida; si
tratta quindi di un vero e proprio “acquedotto” che, se ben gestito
a livello internazionale, può portare acqua dove essa è scarsa
attraverso “prelievi” da aree ove la stessa è più abbondante.
Peraltro, nonostante le dichiarazioni di principio riconoscano
all’acqua un valore fondamentale, i comportamenti di singoli, gruppi,
categorie sociali sono improntate a logiche di interesse ben lontane
dall’universalità del valore che viene riconosciuto all’acqua. In altre
parole, consumiamo risorse a velocità che non sono sostenibili sul
piano ambientale e la crisi è aggravata dall’interazione dinamica
di molti processi sia a livello locale, sia a livello globale: fattori
ambientali (cambiamenti climatici, desertificazione, scomparsa delle
zone umide-tampone); fattori economici (evoluzione dell’industria
agro-alimentare, globalizzazione degli scambi, bisogno crescente
di energia); processi sociali (migrazioni, urbanizzazione, crescita
demografica, epidemie); processi culturali (riconversione dei sistemi
rurali e urbani). Questo concetto può essere quantificato attraverso
la stima dell’”impronta idrica”, parametro che considera il volume
di acqua dolce necessario per la produzione dei beni e dei servizi
utilizzati da un individuo, una collettività, una nazione o nel mondo,
valore fortemente condizionato dagli stili di vita. Così, a fronte di
un valore medio di circa 1.200 m
3
/abitante/anno a livello mondiale
(di cui l’85% per uso agricolo), si hanno Paesi (USA, Grecia,
Italia, Spagna, Portogallo) la cui impronta idrica eccede i 2.000
m
3
/abitante/anno e paesi (India, SudAfrica, Cina) la cui impronta
idrica è inferiore ai 1.000 m
3
/abitante/anno. Una ridistribuzione di
tali valori, anche attraverso flussi idrici virtuali, appare la premessa
indispensabile per garantire un benessere più democratico alla
popolazione mondiale, consentendo un accesso alle risorse
alimentari anche a quei Paesi nei quali lo sviluppo agricolo è limitato
dalla scarsità di acqua.
Ma anche per i Paesi idrologicamente meno limitati, un miglior
uso dell’acqua – attraverso interventi infrastrutturali sulle reti
idriche che consentano di evitare quelle perdite che, anche in aree
sviluppate, raggiungono in alcuni casi il 50% della portata iniziale;
attraverso un ricorso al riuso delle acque che proprio in agricoltura
può rappresentare uno strumento formidabile e consistente di
risorse aggiuntive; attraverso una più efficiente pratica agricola
che ottimizzi le modalità di irrigazione – può contribuire a ridurre in
maniera significativa l’impronta idrica che la presenza umana lascia
sul territorio.
Romano Pagnotta - Comitato tecnico scientifico E&A oggi
Il mondo ha sete perché
noi abbiamo fame