Ecologia alimentare: il miele

Pubblicato il 9 dicembre 2014

Il miele rappresenta, oltre che un dolce e gradevole alimento, un brillante esempio di denominazioni contorte e confuse.

Tanto per cominciare esso è una soluzione zuccherina che le api “fabbricano” rielaborando il nettare dei fiori o le parti zuccherine di molte piante. Le api vanno a depositare il miele nelle speciali celle (favi) che compongono l’alveare e da qui i produttori ricuperano la soluzione zuccherina facendola sgocciolare (si tratta di un liquido viscoso) o con altri artifizi; in qualche caso dei frammenti di favo finiscono nel miele e devono poi essere separati.

Il miele è costituito per circa il 30-35 % di glucosio, per circa il 38-42 % da fruttosio e può contenere anche piccole quantità di saccarosio (lo zucchero ordinario, che si ottiene industrialmente, in Europa, dalla barbabietola, ma che è diffuso anche in molte altre piante). Esso contiene, oltre a piccole quantità di acidi, circa il 20-25 % di acqua.

Un indicatore importante della qualità del miele è il contenuto di idrossimetilfurfurale (HMF). Se la concentrazione di questa sostanza è bassa, da zero a 5 milligrammi per kilogrammo di prodotto, il miele è genuino e non ha subito trattamento di riscaldamento. I mieli scaldati o pastorizzati per aumentarne la conservabilità hanno un contenuto di HMF che può arrivare a 40 mg/kg.

Le denominazioni sono stabilite dalla legge n.753 del 1982 la quale recepisce (dopo appena otto anni!) una direttiva della Comunità europea che ha lo scopo di uniformare le denominazioni di tutto il miele commerciato nei Paesi membri.

Ai fini commerciali si distinguono due principali tipi di miele: (a) il miele di nettare e (b) il miele di melata, quest’ultimo ottenuto dalle secrezioni di parti vive di piante. Ciascuno di questi due tipi si distingue in cinque sottospecie: miele in favo – venduto in favi interi, miele con pezzi di favo, miele scolato, miele centrifugato e miele torchiato.

La composizione merceologica varia ulteriormente per ciascuno dei tipi e sottotipi indicati, e a seconda che si tratti di miele di brughiera (Colluma), di miele di trifoglio, di corbezzolo, di acacia, di lavanda, di agrumi, eccetera.

Questo elenco di nomi sta ad indicare che i vari tipi che il consumatore trova nel negozio possono avere composizione e prezzi molto diversi. L’acquirente, però, fa fatica a capirci qualcosa perché sulle etichette del miele venduto al dettaglio figurano soltanto pochi nomi.

Il consumatore può trovare l’indicazione “miele”, in generale, da solo o con aggiunta del nome botanico o del nome della Regione o del territorio in cui è stato ottenuto. Se il prodotto è italiano deve essere indicata l’origine nazionale.

“Miele vergine integrale” è il nome del miele di origine nazionale che non è stato scaldato o pastorizzato. Se il miele è stato scaldato o pastorizzato, pur essendo perfettamente idoneo all’alimentazione umana, non può essere venduto al consumatore finale, ma viene usato per fini industriali con le denominazioni: “miele per pasticceria” o “miele per l’industria”.

Rispetto ad una produzione italiana oscillante fra 15.000 e 20.000 tonnellate all’anno, le importazioni sono in crescita: nel 2013 17.000 tonnellate, principalmente dall’Ungheria, seguita da Cina e Argentina.

Se il miele italiano è miscelato con miele importato dai Paesi comunitari (ma quanto è il miele italiano e quanto quello di importazione, in ciascuna miscela?) deve essere venduto come “miscela di mieli di origine diversa”.

Le miscele di mieli provenienti da Paesi non comunitari devono portare la denominazione “miscela di mieli di importazione” con l’indicazione dei Paesi di origine.

Dietro questa confusione di nomi si nascondono interssi ben precisi – la guerra degli importatori di miele contro i produttori italiani, la guerra fra i produttori industriali e quelli artigianali – tutto a scapito del consumatore.



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