Come sta l’acqua in Italia?

Pubblicato il 23 aprile 2015

Scattare la fotografia disponibile oggi dell’Italia dell’acqua e individuare le tappe della grande corsa nazionale verso il recupero dei ritardi di 20 anni nella riorganizzazione del servizio idrico, che grazie alla logica dei rinvii e del disinteresse discrimina tra cittadini di serie A (3/4 italiani centro-nord) e serie B (gran parte del Sud con aree che sembrano in via di sviluppo).

Questi gli “Stati generali #acquepulite”, organizzati dalla Struttura di missione #italiasicura, a Roma con i rappresentanti delle Istituzioni e degli enti del settore, con il Ministro dell’Ambiente, Gianluca Galletti, il Vice Ministro dello Sviluppo economico, Claudio De Vincentis e Erasmo D’Angelis, Coordinatore #italiasicura.

Il Governo in questo settore ha assunto impegni concreti che la Struttura di missione #italiasicura, con il Ministero dell’Ambiente sta realizzando con l’obiettivo di far uscire alla svelta intere Regioni da condizioni inaccettabili, dare competitività ai territori, attrarre turismo e non disservizi e inquinamento.

“Siamo qui per dire che siamo in grado di superare i gap infrastrutturali con un’accelerazione degli investimenti e un effetto positivo sui livelli occupazionali. Federutility li stima in una fascia compresa fra 160.000 e 220.000 posti di lavoro”, così Erasmo D’Angelis intervenendo agli Stati generali #acquepulite” a Roma. “Il sistema idrico, fognature e depurazione è ad un livello insostenibile, così come inaccettabile è l’inquinamento dei corsi d’acqua dovuto alla loro assenza e ad una scarsa cultura del rispetto di un bene comune fondamentale e alla licenza di inquinare che alla fine ha prodotto la cultura dell’assuefazione. Non ci facciamo più caso”, ha concluso D’Angelis, se non quando arriviamo sulle spiagge più belle del mondo e troviamo il cartello Divieto di Balneazione”.

Nel corso dei lavori è stato presentato il nuovo portale dell’acqua che raccoglie i dati di interesse del settore idrico. Nasce da un progetto di collaborazione tra la Struttura di missione di Palazzo Chigi #italiasicura e l’Istituto Nazionale di Statistica. Il portale fornisce i contenuti tecnici relativi al mondo dell’acqua forniti da diverse Amministrazioni e disponibili in formato open data e su mappa interattiva. Per aumentare la consapevolezza dell’importanza del settore idrico, #italiasicura ha lanciato anche la campagna di comunicazione sull’acqua con uno spot tv come inizio di una operazione verità su un settore che trova gli onori della cronaca solo per le carenze e le criticità. Gli spot #italiasicura #acquepulite rimandano alle opere da realizzare per disinquinare le nostre acque e gli strumenti disponibili a tutti i cittadini per seguire i lavori in corso.

Anche sulle tariffe, quando le autorità non forniscono dati reali, continua l’incertezza. Tariffe virtuali calcolate su consumi virtuali fanno immaginare cifre paragonabili a quelle degli altri partner Ue. Ma non è così, in Italia siamo 3 o 4 volte sotto la media europea, ultimi su 28 Paesi insieme alla Romania. Il dato vero, per l’Italia, è di 160 euro in media l’anno di spesa per l’acqua, per una famiglia, che consuma in media 100 metri cubi l’anno (1,66 euro a metro cubo).

Il degrado delle acque è un altro problema da affrontare e che per molti versi non è ancora pienamente conosciuto e che chiama in causa molti attori e fattori: lo Stato centrale, tante Regioni e Comuni, controlli e monitoraggi inesistenti o insufficienti, scarichi industriali in libertà.

Basta andare dal Lambro al Crati, ai torrenti siciliani e leggere il report 2015 sulle acque reflue urbane dell’Arpa Sicilia: “Case e uffici di oltre la metà dei siciliani non sono allacciate ad una rete di fognatura o ad un depuratore, il 30% dei depuratori rilevati non è controllato, un terzo del restante 70% sui quali si effettuano i controlli non funzionano. Nel dettaglio, quasi 2 milioni di persone scaricano nei corsi d’acqua, nel mare, nelle campagne o dove capita. In tutta la Regione risultano 431 impianti di trattamento delle acque reflue urbane, la maggioranza non sono attivi ovvero non sono connessi alla rete fognaria esistente e versano in stato di abbandono e degrado totale”.

A 21 anni della legge Galli del 1994 che dettava le regole per la gestione dell’acqua, cinque Regioni non hanno ancora definito l’assetto degli enti d’ambito e i gestori: Sicilia, Calabria, Campania, Lazio e Molise. (per Lazio e Molise le due leggi regionali sono state impugnate per incostituzionalità). In molte parti del mondo l’accesso all’acqua potabile non è garantito, così come non esistono sistemi di collettamento e depurazione. In questa parte di mondo rientrano, purtroppo nel 2015, ancora alcuni territori di alcune nostre Regioni, in particolare due importanti Regioni con condizioni di criticità e arretratezza industriale: Sicilia e Calabria.

La criticità per gli acquedotti, in particolare al Sud, esclusa la Puglia, vede circa 9 milioni di persone ancora con problemi di quantità e qualità di acqua al rubinetto, le stesse dispersioni in rete, conferma Istat, al 37% a livello nazionale sono circa il 50% al Sud (bisogna inviare due litri per utilizzarne uno) e sono direttamente proporzionali agli investimenti sulla rete. Si registra un peggioramento rispetto al 2008, quando le dispersioni di rete erano nel Centro-Sud poco superiori al 40%. Sono invecchiati tubi e impianti e mancano manutenzione (escluso Puglia e Abruzzo).

E 3 italiani su 10 non sono ancora allacciati a fognature o a depuratori, con quasi la maggioranza di chi vive in Sicilia, in Calabria, Campania, un 30% in Lombardia e Friuli. L’ultimo screening Ue disponibile del 2011 non lasciava dubbi: siamo in ritardo sulla capacità di depurazione, e i livelli di allacciamento a fognature e depuratori nelle 86 città con oltre 150.000 abitanti equivalenti, vedeva il 21,8% non connesso a fogna e il 41,9 non in regola con il trattamento secondario. Anche in grandi aree metropolitane.

A quasi 10 anni dal termine ultimo (2005) per la messa a norma dei sistemi fognari e depurativi prevista dalla Direttiva Ue del ’91/271 registriamo un forte ritardo nel rispetto degli obblighi assunti come Stato membro. Questa situazione ha condotto già a due condanne della Corte di Giustizia Europea e all’avvio di una terza procedura di infrazione che porterà inesorabilmente, se non si interviene con forza e determinazione sbloccando l’immobilismo cronico, alla terza sentenza di condanna, ed alla irrogazione di pesanti sanzioni.

Tutte le Regioni sono oggi in infrazione. Il numero di agglomerati urbani non a norma supera i 1.000, sparsi per il territorio nazionale. La Sicilia con 175 ha il maggior numero di agglomerati in infrazione. Segue la Calabria con 130. La Lombardia (con 128 infrazioni, di cui 14 agglomerati condannati e 114 in procedura) è pari alla Campania (125, di cui 10 condannati e 115 in procedura). In ballo ci sono sanzioni pesantissime, già rese note da Bruxelles. Penalità di mora fino a un massimo di 714.000 euro per ogni giorno di ritardo nell’adeguamento, a decorrere dalla pronuncia della sentenza entro il 2016. A ciò si aggiungerà una somma forfettaria calcolata sulla base del Pil, minimo 9,92 milioni, oltre a finanziamenti europei che possono essere sospesi. Multe salate quindi, ad oggi, per 19 Regioni e circa 2.500 Comuni fuorilegge (1.025 agglomerati in infrazione su 3.193 totali nei quali rientrano gli 8.017 Comuni italiani). Una prima simulazione porta la cifra complessiva a circa mezzo miliardo di euro l’anno dal 2016 e fino al completamento delle opere.

La stima importo penalità (in milioni euro) per l’Italia è di 482: Sicilia 185, Lombardia 74, Friuli Venezia Giulia 66, Calabria 38, Campania 21, Puglia e Sardegna 19, Liguria 18, Marche 11, Abruzzo 8, Lazio 7, Piemonte e Val d’Aosta e Veneto 5.

La relazione del novembre 2012 dalla commissione Ue al Parlamento e al Consiglio europeo vede l’Italia in gravissimo arretrato anche sul monitoraggio. Non si conosce lo stato ecologico del 48% delle nostre acque né lo stato chimico per oltre i tre quarti (78%) dei corpi idrici superficiali (nel resto dell’Ue le lacune sono in media del 15%). I dati sono poi aggiornati al 2009. I monitoraggi a livello regionale sono disomogenei e frammentari, come emerge dall’analisi effettuata da Ispra. Vengono monitorati i fiumi e i laghi di sole 15 Regioni su 20. Le Regioni che non hanno un monitoraggio fisso sono Umbria, Sicilia, Calabria, Basilicata e Sardegna. Ma i dati disponibili sono stati raccolti solo in 13 regioni (Abruzzo e Molise non li hanno trasmessi).

Questo disimpegno fa sì che per il 48% di fiumi e laghi italiani non è ad oggi nemmeno possibile eseguire la classificazione prevista dalla Direttiva Ue. Per quel 52% dei corpi idrici monitorati, la qualità è scarsa per il 16%, e generalmente crolla a valle dei centri urbani sia per carichi industriali fuorilegge che per l’impatto del carico urbano.

Solo un’area metropolitana italiana delle 14, quella fiorentina, ha una depurazione al 100%.

Le risorse per intervenire ci sono ma non vengono spese. Solo nel 2011 e nel 2012, con tre Delibere del Cipe, sono state finanziate a fondo perduto opere idriche per complessivi 2,5 miliardi di euro nelle Regioni del Sud (Cipe 62/2011 per 695 milioni, Cipe 87/2012 per 121 milioni e Cipe 60/2012 per 1,6 miliardi).

Inoltre, dal 2007 i fondi strutturali europei rappresentavano un tesoretto da avviare a cantiere per circa 4,3 miliardi di euro per 1.296 interventi. Il monitoraggio ha verificato che appena 76 risultano oggi completati per circa 47 milioni di euro, 768 sono in corso per 1,5 miliardi di euro, mentre i restanti 452 per 2,7 miliardi li abbiamo trovati bloccati e non progettati e sono in fase di avviamento.

C’è poi il caso della delibera Cipe 60/2012, 1,6 miliardi per 180 interventi in Campania, Basilicata, Calabria, Puglia, Sicilia e Sardegna relativi a opere di fognatura e depurazione, impegnati appena 300 milioni per 69 opere, il 18% dell’importo e in particolare in Puglia. 111 opere, le più grandi, per 1,3 miliardi (1,1 in Sicilia) sono a studi di fattibilità o ferme.

Il Governo è già intervenuto con lo Sblocca Italia, stabilendo da un lato la revoca delle risorse stanziate dai soggetti attuatori inadempienti e l’invio di commissari governativi con l’obiettivo di aprire i cantieri. Allo stesso tempo vanno poste alcune condizioni per l’accesso alle risorse: l’attuazione della Galli, l’affidamento del servizio ad aziende che sappiano gestire un depuratore e l’esistenza di un adeguato sistema tariffario in grado di coprire seppur parzialmente le necessità di investimenti.

Dagli “Stati generali #acquepulite” sono arrivate risposte concrete, mirate alla soluzione delle criticità più urgenti: in 3 mesi certezza sui dati dei controlli ambientali attraverso Regioni e Arpa e Ispra, uniformando e aggiornando il monitoraggio esteso su tutto il territorio nazionale, colmando le lacune dei molti dati mancanti; aumentare i controlli, sul campo, sugli scarichi industriali e sull’impiantistica del trattamento delle acque industriali, applicando il principio chi inquina paga; garantire il funzionamento degli impianti di depurazione esistenti, che sono 18.786, di cui 18.162 in esercizio, concentrati soprattutto al Nord; favorire i processi naturali di fitodepurazione, applicandola anche ai sistemi di depurazione civile dove è possibile; favorire il riutilizzo delle acque di depurazione ai fini industriali e irrigui.

C’è poi da avviare un piano di investimenti di pubblica utilità a lungo termine per rendere davvero universale il servizio. Federutility calcola che sono da rottamare o ristrutturare 170.000 km di condotte (125.000 per acquedotti). Servirebbe posare 51.000 km di nuove reti: 30.000 per l’acqua e 21.000 per le fognature. Sono 65 i miliardi di investimenti necessari previsti in 30 anni nei Piani di Ambito. La media degli investimenti realizzati dai gestori dei servizi idrici è di 34 euro/abitante anno, si abbassa a 28 se si considerano le gestioni comunali che investono meno di 10 euro/abitante anno. La differenza con la media di Paesi europei è abissale: 80 in Germania, 90 in Francia, 100 in Gran Bretagna, 120 Danimarca.

Sono stati investiti ogni anno dal 2012 circa 1,7 miliardi soprattutto al centro-nord di cui 400 milioni di fondi pubblici di sostegno, e il resto con risorse da tariffa.

Il fabbisogno stimato per invertire il trend e sviluppare reti, impianti e manutenzioni è di almeno 50 euro ad abitante. Perché se non si inverte il ritmo la ricaduta economica si tradurrà in 130 miliardi di euro di costi per mancata modernizzazione, ai quali vanno aggiunti i rischi ambientali.

È realistico aumentare l’investimento dei gestori da 1,3 miliardi l’anno a 2,5 miliardi l’anno. Aggiungendo i 400 milioni di euro l’anno di nuovi fondi pubblici di sostegno, si avrà una cifra annua nei prossimi 6 anni di circa 3 miliardi. Se aggiungiamo i 2,5 miliardi non spesi e da spendere, siamo a investimenti nel ciclo 2015-20 di oltre 20 miliardi. La condizione minima per iniziare a portare il settore idrico a livello europeo.



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